Ci siamo quasi…
A breve sarà on-line il nuovo blog: “IL TREDICESIMO CAVALIERE 2.0“, che si propone di stupire i fedelissimi e di coinvolgere sempre più appassionati ed esperti di scienze delle spazio e fantascienza.
Il Team di autori e in particolar modo il responsabile supremo, sua eccellenza Roberto Flaibani, stanno lavorando a ritmi serratissimi con l’intento di creare un ambiente accogliente, che riesca a coinvolgere e a nutrire la sete di conoscenza verso ciò che ci circonda.
Completamente rinnovato in grafica e funzionalità, ma sulla consolidata linea guida del suo predecessore, Il Tredicesimo Cavaliere 2.0 vi invita a lasciare commenti, idee e suggerimenti al fine di prepararsi al meglio al suo lancio.
Anche i computer hanno un’anima ?
“Non parlo male del mio computer, temo che si vendichi”
Fausto Gianfranceschi
Abbiamo la tendenza, sicuramente per farle più “nostre”, a umanizzare le cose, soprattutto le macchine, quali oggetti utili, di lavoro e di divertimento: ad esempio, diamo un nome alle barche, magari anche alle automobili e agli aeroplani. Spesso alcuni specialisti ritengono qualcosa di strettamente personale gli strumenti del proprio lavoro, una specie di prolungamento di se stessi, come in realtà sotto un certo aspetto lo sono: dalla zappa del contadino, allo scalpello e alla pialla del falegname, ma anche la penna dello scrittore, il bisturi del chirurgo. Tutti sono prolungamenti artificiali di qualcosa di naturale: la mano, il braccio, il piede, in ultimo il cervello. I guerrieri dell’antichità, i cavalieri del medioevo davano un nome alla propria spada: non solo era il prolungamento del proprio braccio, ma del proprio Io: aveva un nome e anche un’anima… La spada veniva sepolta con il guerriero morto, la spada del re veniva spezzata. Durlindana ed Excalibur sono entrate nella storia e nell’immaginario collettivo, per non parlare delle spade degli eroi del Signore degli Anelli, da Glamdring la spada di Gandalf a Pungolo la spada di Frodo a Anduril la spada di Aragorn.
Oggi uno strumento di lavoro diffusissimo e universale ad appena una quarantina d’anni dal suo lancio commerciale (il Commodore PET 2001 nel 1975) è il computer personale, quello che una volta si chiamava il “cervello elettronico”, o anche “calcolatore elettronico”, termini che non usa più nessuno. Ma, proprio da questa definizione si capisce come si tratti di uno strumento di lavoro che maggiormente si avvicina all’essere umano, appunto per la sua capacità logica di elaborare dati, informazioni, di scrivere, di disegnare e di fare un numero incalcolabile ormai di funzioni. E proprio per questo il computer risulta ormai la più umanizzata delle macchine.
Sin dall’inizio si è usata nei suoi confronti una terminologia umanizzante: i computer si ammalano, i computer vengono infettati, li colpiscono dei virus, dai bachi (bug), devono essere curati, sono soggetti a periodiche epidemie, a veri e propri contagi diffusi in tutto il mondo eccetera eccetera. Non essendo il computer passivo come la televisione, ma attivo (risponde ad esempio per scritto e oggi anche in voce anche perché ormai gli puoi impartire ordini vocali e dettare testi parlandogli), i suoi utenti si rivolgono a lui personalizzandolo: ci dialogano, lo blandiscono, lo accusano, inveiscono contro di lui, cercano di non irritarlo. Ma, per umanizzato che sia il computer resta una macchina che, spesso e volentieri, non si smuove, non la si convince, non si riesce a farla ragionare…. Il tecnico cui porto a riparare il mio pc una volta mi disse: “Il computer è una macchina illogica”. E se lo dice lui…. Negli Stati Uniti è diffusa la “sindrome da computer”: lo stress che si accumula di fronte alla ostinazione e alla ostilità della macchina si scarica su di essa: impiegati, dirigenti, soprattutto giornalisti vi si scagliano contro a pugni e calci, a martellate, anche a revolverate…
Ora è stato fatto un ulteriore passo avanti nel modo di considerare sempre più umano il computer, ed è stato fatto in una nazione di civiltà e mentalità diverse da quelle degli Stati Uniti e comunque dell’Occidente. In Giappone il computer che non funziona soprattutto perché infettato da virus, perché sottoposto ad attacchi di pirati informatici (ne avverrebbero come minimo 35mila al mese), non lo si maledice, non lo si prende a calci, non lo si distrugge a martellate, ma lo si porta a far benedire in un tempio shintoista per purificarlo dal “maligno digitale”. E’ accaduto qualche temo fa al tempio Kanda Myojin di Tokyo dove si sono riuniti con i loro computer infestati i professionisti di tecnologia informatica ed i membri dell’associazione dei commercianti di elettronica del quartiere Akihabara della capitale giapponese. E il parallelo che viene in mente subito è l’indemoniato che viene esorcizzato in una chiesa cattolica.
Meno strano di quel che sembri, una logica evoluzione delle cose: noi non portiamo forse a far benedire cani, gatti e cavalli? non portiamo a far benedire le automobili? e non portiamo ad esorcizzare in chiesa gli indemoniati? Il computer, ormai metà macchina metà umano (non si stanno elaborando chip biologici?), viene invaso da entità indesiderate che lo bloccano, lo fanno straparlare, lo fanno impazzire, letteralmente gli fanno dare i numeri: e per non impazzire anche loro, i meno violenti giapponesi lo portano a far benedire, ricorrono all’esorcista informatico… Dalla fantascienza il computer infestato è approdato alla realtà. Quindi, sarebbe necessario che accanto alla consolle, vicino alla tastiera, si cominci a tenere una bottiglietta di acqua santa con relativo aspersorio…
E, una volta scientificamente accertato che anche i computer hanno un’anima (il problema se l’erano posto sia Isaac Asimov che Philip Dick, m anche Cliffotd Simak), forse sarebbe il caso di prendere in considerazione l’ipotesi di “battezzarlo” appena uscito di fabbrica…Ma, ci si potrebbe chiedere, l’anima del pc dove si trova? Nell’hardware o nel software, nella “ferraglia” o nel programma? Un bel problema, quasi filosofico. Sta di fatto, però, che ogni tanto riceviamo nella nostra posta elettronica messaggi di questo tipo: “Ciao! Sono il programma X. Mi occupo della mailing list di Y. Sto lavorando per il mio responsabile che può essere contattato a Z…”. Meditate gente, meditate.
Peraltro. la situazione è diventata reversibile. Il computer si umanizza, l’uomo si computerizza, magari soltanto a partire dal proprio nome. Negli Stati Uniti un certo Jon Blake Cusack di Holland (Michigan) passerà alla storia per aver deciso di chiamare suo figlio “2.0”, come fosse la nuova versione di un programma informatico. Lui, il padre, sarebbe dunque “1.0”, tanto da auspicare che un futuro nipote venga chiamato “3.0”. Questo perché il signor Jon Blake Cusack è “un appassionato di computer e software” ed ha visto il film Novecento di Tornatore e Baricco in cui un ragazzino veniva chiamato, appunto, “Novecento”… Questo americano non solo dà i punti agli stravaganti nomi che s’impongono in Romagna, ma apre una moda al passo coi tempi demenziali che stiamo vivendo. Un esempio atroce di totale spersonalizzazione: nessuno ha infatti ricordato che nelle grandi antiutopie del secolo trascorso, da Noi di Zamjatin a Il mondo nuovo di Huxley, da Antifona di Ayn Rand a 1984 di Orwell, i nomi propri sono accompagnati o sostituiti da una sigla ed un numero allo scopo di far scomparire ogni individualità nell’ambito di una società in cui si applicano integralmente il comunismo o un capitalismo esasperato. Un mondo di macchine umanizzate e di uomini-macchina. Ai lettori che desiderano approfondire l’argomento degli esseri ibridi, metà uomo metà macchina, consigliamo la lettura di “Elogio del Cyborg“.
GIANFRANCO de TURRIS
La mente e le catastrofi
Molti anni fa ho conosciuto un comico tedesco, più un performer che un comico, ma tant’è: era pagato dal comune di Roma per fare il comico/performer/buffone nel quadro delle iniziative dell’Estate Romana.
In sostanza il suo numero consisteva nell’essere vestito in modo molto strano, con un tight verde, un cappello di quelli da Topolino con le orecchie tonde e grandi e due scarpe da clown e la sua azione consisteva nel prendere a colpi di forcone i cocomeri che il pubblico gli tirava. Lo so, sembra folle ma era proprio così: nel Parco del Turismo all’Eur, alle nove di sera, in una piazzuola circondato da 200 persone lui invitava il pubblico a prendere un cocomero da una pila di forse 100, duecento cocomeri e a tirarglielo addosso; e lui cercava di colpirlo con un forcone a tre rebbi, di quelli da pagliaio. Letteralmente.
Era molto strano ma ancora più strano era l’entusiasmo con cui dopo poco il pubblico partecipava, tirando a lui i cocomeri che venivano spaccati al volo e poi tirandosi l’un l’altro addosso i pezzi dei cocomeri. Alla fine c’era una trentina di ragazzi, quasi nessuna ragazza, che si tiravano pezzi di cocomero, sporcandosi, divertendosi da matti, e la cosa è andata avanti per un buon quarto d’ora. Era molto più una performance che non uno spettacolo comico in senso stretto.
Hans era il suo nome ed era amico di amici attori, anche loro presenti per cui dopo la performance mi sono trovato con lui e con i miei amici a parlare del suo lavoro. E lui molto serenamente mi diceva che aveva a che fare con la morte. Sosteneva che la massa della gente oggi, diversamente dal passato, non vede mai la morte, non assiste alla morte reale. Un tempo non era così, la gente moriva per lo più in casa, c’erano le guerre, le morti per malattie, il morto in casa veniva rivestito dai parenti per il funerale e questo fino a tutti gli anni 50 e in campagna anche dopo. Oggi non è così, si muore in ospedale e a rivestire i morti ci pensano i necrofori. Ma la gente sa che la morte c’è, però non la vede, non ha contatto, non il contatto quotidiano di un tempo. La morte è la negazione del consumismo ed il consumismo l’ha rimossa, edulcorata, sterilizzata, nascosta.
Ma la gente, ripeteva Hans, lo sa che la morte c’è, lo sa nel corpo, nell’inconscio, nella propria carne. Per cui quando gli dici “spacca il cocomero” cioè compi un gesto distruttivo e innocuo, lascia galleggiare questo desiderio di distruzione, questa pulsione di morte. Intendiamoci era la sua performance, la sua teoria. Però mi ha colpito e anche molto, soprattutto perché ero rimasto stupito dalla partecipazione di decine e decine di persone a quella foga distruttiva. Ho elaborato un’altra teoria, partendo dal lavoro di Hans.
Il consumismo elimina/nasconde la morte, ma elimina anche le catastrofi. Certo, vediamo poi in televisione in continuazione sparatorie vere e finte, nelle serie televisive come nei documentari delle zone di guerra e ormai Internet ti pernette di vedere perfino le esecuzioni o le torture in diretta se proprio vuoi. Non scherzo: se vuoi, le vedi.
E tutti sotto sotto abbiamo paura delle catastrofi. Perché sappiamo, pensiamo, temiamo che possano accadere. Di solito prendono la forma di eventi naturali, terremoti, maremoti, lo tsunami di qualche anno fa nel Pacifico ha ucciso in un paio di settimane 200.000 persone, per lo più in piccole isole, barchette, sulle coste, ma sempre 200.000. Abbiamo paura delle catastrofi perché sotto sotto pensiamo anche, sappiamo che il benessere nel quale viviamo come occidentali che abitano nel nord del mondo è instabile, forse ingiusto. Non è giusto che noi siamo grassi, moriamo di malattie connesse a eccessi nell’alimentazione, gettiamo milioni di tonnellate di cibo ed il resto del mondo muoia pure di fame, di povertà, di guerre violente. Non va bene e lo sappiamo. Per cui temiamo le catastrofi perché pensiamo di meritarle. Ma le catastrofi non sono così facili.
Certo un meteorite abbastanza grosso cancellerebbe, come ha già fatto, il 75% delle specie di vita sul pianeta, ma io non credo che ce la farebbe con noi. I ghiacci che si sciolgono, mh, cambieranno il clima ma nei porti ne farebbero pochi di danni, ci sposteremmo verso l’interno. Molte di più ne farebbe una vera catastrofe economica. Ecco… tutti hanno paura della crisi economica, dei mercati e delle Borse, ma la crisi veramente rischiosa sarà/sarebbe una crisi sistemica globale, che è possibilissima. Molto più possibile e pericolosa del meteorite o dello sciogliersi dei ghiacci.
Le Borse sono nate per procurare capitali freschi alle industrie e sono immediatamente diventate luoghi di pura speculazione dove la ricchezza si distrugge ma non si crea, e badate, quando si distrugge questo accade per davvero: un crollo del 5% a Tokyo che vuol dire in ipotesi 100 miliardi di dollari sono proprio 100 miliardi di dollari bruciati, distrutti realmente. E quando la borsa riapre e risale non crea il +5% dal nulla, si limita a raccogliere dentro la borsa ricchezza che viene da fuori. Un crollo vero e duraturo del sistema che coinvolgesse anche i debiti pubblici di tutti gli stati che ne hanno sarebbe un crollo spaventoso, una distruzione reale e totale della ricchezza del pianeta. Secondo me morirebbe nel giro di un anno il 90% degli abitanti del pianeta.
Esagero? Mh.
Ne ho già scritto su Il Tredicesimo Cavaliere, troverete l’articolo ed altri riferimenti qui:
Il crollo della Borsa cinese più distruttivo di un asteroide?
Ma il bello è che ho scoperto che la Cina oltre ad essere un paese enorme, con una popolazione non censita che supera i 1300 milioni di abitanti, che possiede oltre il 20% del debito pubblico degli Stati Uniti (situazione pericolosissima per tutti!) è anche il paese dove i miliardari scompaiono!
Cina, il paese dove i finanzieri spariscono nel nulla
Voi capite che se nemmeno una enorme ricchezza ti mette al riparo da scherzi del genere, mh, non c’è da fidarsi molto di nessuno.
MASSIMO MONGAI
Il Tevere è Radioattivo?!
Capita qualche volta ai blogger fortunati come me, di imbattersi in quel tipo di continua rielaborazione mentale di un’idea che un John Coltrane e un McCoy Tyner fanno con un tema musicale. E’, né più né meno, ciò che Mongai fa con gli stilemi della fantascienza. Insomma quello che segue mi sembra l’ennesimo mattone del Mongai-pensiero, la costruzione bizzarra e un po’ sbilenca, e forse per questo così divertente, che l’autore sta sviluppando da tutta una vita, eppure da me ha avuto un unico contributo: il nome. Di questo, però, meno gran vanto. (RF).
Essere morsi da un ragno radioattivo può trasformare un essere umano in un uomo-ragno dotato di superpoteri? Sì, è successo a Peter Parker. Una simile ipotesi è fanta-scientifica, ossia almeno in parte “scientifica”? Sì. Ni. E cadere nel Tevere e imbattersi in un bidone di sostanze radioattive? E
diventare un supereroe a Tor Bella Monaca? E’ o non è un film di fantascienza? Nel senso della parte “anche” scientifica? Secondo Massimo Mongai sì.
Diciamo che è uno stilema classico della fantascienza, come le storie di animali ingigantiti dalle radiazioni dei film e dei fumetti anni ’50, o i superpoteri di Superman che verrebbero dal fatto che lui è un umano nato su un pianeta con una forza di gravità superiore a quella della Terra sulla quale salta e poi vola, e si trova sotto un sole giallo che diversamente da quello rosso in cui è nato gli dà gli altri superpoteri. Si tratta di ipotesi “scientifiche” a dir poco molto ingenue, risalenti a decenni fa e molto datate, che oggi non verrebbero usate. Non a caso sono idee “vecchie”, e che risalgono, in particolare Superman, al periodo della grande esplosione della pulp-fiction, ossia agli anni 20/30 quando non a caso nasce il periodo dell’Epoca d’Oro della fantascienza.
Eppure c’è chi lo ha fatto anche recentemente anche in Italia ed è un regista di tutto rispetto, Gabriele Salvatores con Il Ragazzo Invisibile, nel 2015. E’ vero, il gruppo a cui apparteneva il protagonista era un gruppo di mutanti, che a loro volta erano la conseguenza di un qualche esperimento nucleare.
Ed ora è in sala un altro film fantascientifico di questo tipo, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, nel quale tutto parte dalla casuale immersione del protagonista in un punto del Tevere in cui sono “nascosti” dei fusti contenenti rifiuti radioattivi, un misterioso materiale non chiaramente determinato né nelle qualità, né nella provenienza: lui ne rompe uno, la materia esce e lui ne viene completamente avvolto, la inghiotte, insomma fa una vera full immersion nella radioattività. Donde superforza, super resistenza, capacità di autorigenerazione.
Il film è bellissimo! O almeno godibilissimo, coraggioso, divertente e sta avendo un discreto successo basato sul passa parola eccetera. Il consiglio è di andare a vederlo.
Però la domanda più interessante che ci si può porre è quella relativa alla plausibilità reale dei presupposti scientifici della storia. Di questa come di tante altre le storie di fantascienza.
Il grande Philip Jose Farmer ha detto che un romanzo di fantascienza deve rispettare le conoscenze scientifiche del momento storico in cui l’autore scrive e se questo elemento è rispettato il racconto resta “di fantascienza” anche se a distanza di anni quei presupposti scientifici sono stati smentiti. Ad esempio il ciclo di John Carter di Marte di E.R.Burroughs, descrive un pianeta con atmosfera, acqua, foreste, una temperatura medio alta, tutte cose che oggi noi sappiamo per certo non esser vere, ma all’epoca di Burrgoughs non si sapeva. Oddio, forse chiedendo meglio a qualche scienziato/astronomo più aggiornato, forse, chissà qualcosa si sarebbe potuto sapere.
La”chimica” sulla base della quale Frankenstein crea la sua “creatura” assomiglia un po’ all’ alchimia, ma di sicuro non c’entra la magia, anzi in ballo c’è dichiaratamente solo la scienza. E così via: Jekill diventa Hyde per l’uso di sostanze chimiche non di un filtro magico, Gulliver sale su una isola volante, Laputa, che si muove e vola perché ha una serie di calamite che lo permettono, e questa è l’origine della FS.
Ora, quella della plausibilità scientifica di un racconto fanta-scientifico non è questione da poco. Anzi. La fantascienza è un genere potente in cui fantasia e creatività dell’autore possono scatenarsi letteralmente attraverso non solo tutto l’Universo ma anche i molti altri Universi possibili teoricamente, ipotizzati da molti scienziati; non solo spaziare nel futuro, ma anche in un futuro così remoto da non essere concepibile o alla fine del tempo o all’inizio del tempo o anche prima, perché no?
Sempre rispettando i “limiti” della scienza, o almeno non facendo affermazioni o ipotesi esplicitamente contrarie alle leggi scientifiche. Da parte di molti autori si tende a contaminare le storie con elementi che di scientifico hanno poco, se non addirittura nulla, se non, orrore, proprio misitico-magici. Sono contaminazioni che non hanno di solito un gran futuro, perché gli appassionati di FS sono estremamente esigenti e pignoli.
Ma alla fin fine, forse, quello che conta non è il risultato? Non lo so. Onestamente non lo so.
Ad esempio l’idea di uno che cade nel “biondo” Tevere e si imbatte in scorie radioattive può accadere, considerando che lo smaltimento dei rifiuti pericolosi è ormai sempre più spesso in mani illegali e criminali che disseminato rifiuti letali ovunque sul territorio, perché non nel Tevere? E però che le radiazioni possano dare dei superpoteri è come ho detto idea vecchia, la cui fanta-scientificità forse non è più accettabile.
E però dico “forse”, perché il film mi è molto piaciuto. E questo è accaduto perché l’idea è stata ben sviluppata, in una storia che ha anche molti altri elementi: i manga, la cultura pop di fumetti e cartoni animati, la commedia, il thriller, il film sulle mafie cattive, c’è di tutto, Forse anche un po’ troppo.
Diciamo che quell’idea è un tipico stilema della FS e dicesi stilema:
“…Unità corrispondente a una scelta stilistica nel campo lessicale (egregio di fronte a chiarissimo in un indirizzo), sintattico (Dante nasceva nel 1265 di fronte a nacque), morfologico (gli disse di fronte a disse a lui), estens. Movenza stilistica, procedimento stilistico di un autore, di una scuola, di un periodo.”
C’è da aggiungere poi che una delle caratteristiche più tipiche e forti della fantascienza e ben rappresentata dalla domanda posta da Isaac Asimov ed altri: what if, tradotta di solito con l’espressione che cosa potrebbe accadere se….E segue una ipotesi “fantascientifca” e segue anche una storia. Di solito se l’autore è bravo il risultato è estremamente gradevole. Certo, se vi piace la fantascienza. C’è a chi non piace. Perché occorre attuare anche una forte sospensione dell’incredulità. Non tutti vogliono o ne sono capaci, e questo è il motivo per cui la FS è ansiogena ed antipatica. Ne volete una ulteriore prova? Presto detto.
Il film sta avendo un notevole successo al botteghino, fin dal primo week-end, prova del fatto che il film piace e che funzionano sia il trailer, sia l’immediato tam-tam. E’ sorprendente tuttavia constatare che quasi nessuno usa il termine “fantascienza” per definire il film. In una intervista a Radio24 lo stesso regista lo ha definito un film supereroistico, ossia relativo ai supereroi, come se questi fossero qualcosa di altro rispetto alla Fantascienza. Ed il termine in questione, “supereroistico” o “superomistico”, è usatissimo in quasi tutti gli articoli e le segnalazioni del film, tutte positive, si badi bene.
Il film piace ed ha critiche positive a patto di non definirlo come un film di fantascienza. E la questione è antica! Il termine FS indica molte cose ma spesso cose non positive, le frasi tipiche sono “ma questa è roba da fantascienza” oppure “questa non è mica fantascienza” in relazione alla presentazione di progressi scientifici o tecnologici ed altre espressioni relative ad altri elementi culturali. Il regista stesso ha dichiarato di aver tentato per 5 anni di trovare soldi e di averceli messi poi di tasca sua, almeno in gran parte, perché appunto non trovava finanziamenti (film peraltro di basso budget, pare, circa 1,7 milioni di euro che per un film italiano in assoluto è poco, per un film di Fs è niente). La FS è un genere ambito dal pubblico ma immensamente screditato in Italia da parte da chi ci dovrebbe investire.
Ci sono continuamente film di FS americani in sala, una media di 3 o 4 film al mese, più gli altri che poi arrivano direttamente in televisione, parliamo di 40/50 film l’anno, il pubblico li va a vedere ed è un pubblico intergenerazionale e intersessuale, come dire, tutti: uomini e donne, giovani e vecchi, il grande pubblico. Ma i produttori italiani ignorano il genere e perfino l’autore di un film di successo come questo, a successo ormai acclarato, non usa il termine fantascienza! Da sempre sostengo che questo è il principale segno di minorità culturale della FS, ed è tutto nella testa di chi se ne occupa, gli autori per primi.
MASSIMO MONGAI
I primi robot? Nel Mito.
Il mondo è ormai pieno di robot, si sa. Nelle fabbriche soprattutto, e ormai da anni. Anzi, pare che sia in una fabbrica giapponese nei primi anni ’70 che uno dei primi robot industriali abbia ucciso in un incidente un essere umano (e la cosa è stata tenuta segreta per anni!). Ma in realtà sono un po’ dappertutto, anche se nessuno, finora, simile anche solo lontanamente a quelli di Asimov.
Ma gli “automi” in realtà sono ben più antichi, come del resto rivela la parola stessa automa che viene dritta dritta dal greco, “automatos”, αὐτόματος, “dotato di movimento autonomo”.
Che io sappia la prima citazione di un automa in assoluto in un testo è nell’Iliade:
Teti per consolare il figlio Achille va da Vulcano a fargli costruire delle armi nuove, dato che quelle dell’eroe sono diventate preda di Ettore dopo che questi ha ucciso Patroclo.
Mentre seguían tra lor queste contese,
Teti agli alberghi di Vulcan pervenne;
Stellati eterni rilucenti alberghi,
505
Fra i celesti i più belli, e dallo stesso
Vulcan costrutti di massiccio bronzo.
Tutto in sudor trovollo affaccendato
De’ mantici al lavoro. Avea per mano
Dieci tripodi e dieci, adornamento
510
Di palagio regal. Sopposte a tutti
D’oro avea le rotelle, onde ne gisse
Da sè ciascuno all’assemblea de’ numi,
E da sè ne tornasse onde si tolse:
Maraviglia a vederli!
Quindi tripodi d’oro su rotelle, che però vanno avanti e dietro apparentemente dotati di una autonoma volontà: “…da sé…”.
E del resto tracce di automi sono anche altrove ad esempio nel Mito di Minosse, creatore del Talos, un enorme gigante di bronzo che difende l’isola di Creta.
Il che mi ha portato sempre a pensare: ma perché nell’antichità greco-romana non si è sviluppata una qualche società industriale? La risposta è ovvia e nota, si trattava di una civiltà schiavista: la forza lavoro, ovunque, dalle campagne alle fabbriche era fornita dagli schiavi; e c’erano fabbriche, sia chiaro, c’era una vera e propria produzione semiindustriale, in serie; i legionari ad esempio indossavano corazze, scudi e gladi tutti uguali, prodotti in strutture paleoindustriali vere e proprie a decine di migliaia di pezzi. Le navi dei cartaginesi addirittura era costruite in prezzi separati, prefabbricati ed assemblati vicino all’acqua.
Però, appunto, c’erano gli schiavi.
Ad esempio una casa editrice era una stanza nella quale uno schiavo leggeva ad alta voce un libro ed altri 10 o 20 scrivevano le copie sotto dettatura…
Una società schiavista è basata sulla forza lavoro umana, dei muscoli umani, obbligata e forzata e di fatto esprimeva un alto livello di organizzazione e di civiltà. Schiaviste erano tutte le società del Mediterraneo e dintorni, ma lo era anche la Cina; quel che voglio dire è che lo schiavismo, pur crudele, pur disumano secondo i nostri schemi, funzionava e del resto l’ultimo paese nel quale la schiavitù è stata abolita è il Brasile, nel 1888, ben 23 anni dopo la fine della Guerra Civile negli USA.
Senza disturbare il concetto di schiavitù salariata elaborato da Marx (che ci porterebbe forse fuori strada), c’è però da chiedersi perché una civiltà tecnologicamente evoluta non si sia imposta prima. Ad esempio nella società greco romana la tecnologia c’era, almeno potenzialmente; ad esempio la raffinatissima tecnologia metallurgica che era in grado di produrre bellissime statue di bronzo (vedi i Bronzi di Riace).
Oppure il primo meccanismo a vapore, la “eolipila”, ad opera di Erone di Alessandria, vero e proprio inventore di macchine.
E’ vero, sembra poco più di un giocattolo, ma il principio della macchina a vapore è tutto lì, passare dal giocattolo ad una macchina per trasportare o sollevare o svolgere comunque una azione meccanica utile, il passo è breve, o potrebbe essere breve.
Le macchine c’erano, ad esempio gru estrememente complesse ed efficienti per sollevare carichi a grandi altezze, per costurire ponti, acquedotti, il Colosseo! Però erano alimentate dalla forza animale di buoi o esseri umani.
Ma la tecnologia e le capacità scientifiche in generale erano in grado di produrre anche meccanismi infinitamente più complessi come il Meccanismo di Anticitera.
Un meraviglioso “orologio”, in realtà un vero e proprio calcolatore meccanico e manuale che serviva a calcolare le orbite dei cinque pianeti allora conosciuti nel sistema solare.
Ma è vero che questo discorso è già stato fatto molte volte. Perché la civiltà cosiddetta industriale non si è evoluta prima?
Molte le motivazioni e dato che la storia non si fa con i se ed i ma, è difficile dare una risposta, se vi va potete anche pensare che si tratti di un complotto alieno, o che “qualcuno” ha deciso che il 1700 era il momento giusto per far sviluppare una civiltà industriale sulla Terra.
Resta quindi un piccolo mistero.
La tecnologia c’era, le capacità di analisi scientifica anche, ma la forza d’inerzia insita in una società schiavista nella quale quasi metà della popolazione era formata da schiavi e nella quale le donne non avevano nessun vero ruolo sociale e politico all’esterno della famiglia ha trattenuto la civiltà greco romana dall’anticipare una società più evoluta, e alla fine forse l’ha avviata verso il declino per altro ad opera materiale di popolazioni barbare che di sicuro non erano culturalmente all’altezza e a loro volta, oltre che razziatrici, schiaviste.
Dall’inizio del medioevo in poi c’è voluto quasi un millennio e mezzo per arrivare alla società industriale.
Certo, non è detto che sia un bene, anche se questo è il discorso di sempre sui vantaggi e svantaggi della civiltà in assoluto e di quella industriale in particolare. Per altro ad una società veramente robotica non ci siamo ancora arrivati, e anche se non sappiamo come sarà, sappiamo come la immaginava Isaac Asimov.
Forse quando miniaturizzeremo ancora di più i computer superpotenti che già esistono e li infileremo nei “corpi” di varia forma e foggia di macchine con rotelle come i tripodi di Vulcano, avremo a disposizione macchine in grado di obbedire agli ordini più complessi e perfino di rispondere a domande specifiche. Ma di “cervelli positronici a base cristallina” ancora non si vede traccia all’orizonte…
MASSIMO MONGAI
I sogni della genetica umana creano mostri
Alcuni anni fa, nel 2008, c’è stato un signore con baffi e barba che ha partorito. Si chiama Thomas Beattie, vive in Oregon e prima di sottoporsi ad una massiccia dose di testosterone e di farsi asportare i seni si chiamava Tracy Lagondino. Non essendosi però fatta asportare anche l’intero apparato genitale e non potendo avere la sua compagna un figlio, ha deciso di farsi inseminare (ma se voleva essere “uomo” perché ha sentito questo impulso?). Non è l’ermafrodito del mito, come ha vaneggiato la stampa italiana dell’epoca, ma semplicemente un mostro che si è venduto alla pubblicità. L’ermafrodito del mito è un archetipo cui Elémire Zolla ha dedicato un libro edito da Marsilio, e risale addirittura a Platone e la statuaria classica e la pittura seguente ce lo raffigura come esteticamente seducente, non come un orrore genetico. Nel frattempo, il nostro Pregnant Man, come lo hanno definito i giornali americani, non avendo evidentemente atro da fare di figli ne ha messi al mondo altri due e nel 2014 è stato arrestato per stalking nei confronti della sua ex, che si era evidentemente stufata di lui/lei.
Sempre in America, la Cornell University ha creato un embrione umano geneticamente modificato, un embrione-ogm che – si assicura – non potrà mai essere usato per la fecondazione assistita e quindi non potrà mai diventare un bambino.
In Gran Bretagna pochi giorni dopo questo annuncio, il 20 maggio 2008, laburisti e conservatori della Camera dei Comuni hanno dato il via libera alla ricerca sui cosiddetti “embrioni chimera”, cioè embrioni formati da Dna umano inserito in ovociti animali svuotati del loro Dna nucleare.
(nell’immagine: Aldous Huxley, autore de Il Mondo Nuovo). Entrambe le ricerche, si afferma, sono indirizzate alla cura di malattie altrimenti incurabili, e tali embrioni sarebbero ad un certo punto (quindici giorni?) distrutti. Ma se non lo fossero, e se qualcuno ne facesse un uso improprio, se gli embrioni genericamente modificati fossero utilizzati nascostamente per i design baby, vale a dire i bambini creati senza difetti in laboratorio? Chi ci può assicurare che ciò non potrebbe avvenire? E se avvenisse come sarebbe possibile accusare ancora i nazisti di essere i teorici di una “razza perfetta” e di aver fatto esperimenti in questa direzione? Del resto, senza arrivare a questo punto, si è già sulla buona strada: diverse “banche del seme” hanno preparato dei cataloghi da sottoporre alle coppie interessate in cui sono elencate le caratteristiche fisiche del nascituro (colore degli occhi, dei capelli eccetera) in base alle caratteristiche fisiche del donatore. Nessuno si indigna sull’etica “nazista” che sta alla base di tutto questo, ma ci si indigna invece quando queste previsioni sono sbagliate e invece di alcune caratteristiche ne escono fuori altre: ad esempio i colore della pelle!
Sempre in Gran Bretagna la nuova legge sulla fecondazione, utilizzando il termine complessivo di “genitori” senza altre specificazioni, consente che un bambino abbia due madri e non più un padre ed una madre, e Genitore 1 e Genitore 2 si è diffuso anche su altri piani e in diverse altre nazioni, non senza polemiche. L’abbattimento del senso comune produce una tale babele al punto che, come ha scritto Assuntina Moresi, oggi sarebbe possibile arrivare al punto di avere due padri e quattro madri: il padre biologico e il padre sociale; la madre sociale, la madre che ha dato gli ovociti, la madre che ha dato i mitocondri e la madre che ha messo a disposizione l’utero.
Il caos scientifico e sociale è già così evidente, ma di sicuro non ci si fermerà qui: prepariamoci ad assai di peggio. Tutto, peraltro, previsto dai romanzi fantastico-filosofici, dalla narrativa d’anticipazione e dalla moderna fantascienza, che da due secoli mette in guardia dallo scienziato che si vuole fare dio e creare la vita artificiale, o spera di trovare la formula dell’immortalità, o superare qualcuno dei limiti posti all’umana natura. Inutile ricordare gli ibridi uomo-animale narrati dal mito, il loro significato simbolico e la loro nefanda fine per mano degli eroi (si pensi solo al Minotauro); inutile ricordare la ricerca dell’Elisir di Lunga Vita e l’homunculus degli alchimisti; inutile ricordare il golem creato e poi distrutto, secondo la leggenda cabalistica, dal rabbino praghese Loew.
Parliamo invece del dottor Viktor Frankenstein che vuole far nascere la sua Creatura con pezzi di cadaveri rivivificati dall’elettricità: mal gliene incoglie a lui e al suo infelice essere artificioso (più che artificiale). E parliamo del dottor Moreau che nella sua isola crea una congerie orribile di ibridi innestando chirurgicamente uomini e animali, che alla fine si rivolteranno contro il loro creatore-padrone. Sono trascorsiu ottanta anni fra il romanzo della Shelley (1818) e il romanzo di Wells (1896): la scienza ha fatto progressi e la paura che essa corra troppo e contro natura non è scemata, anzi si accresce, ma senza che questi inquietanti avvertimenti sembrino incidere in alcun modo sulla mentalità e sulla realtà.
Infatti, nel 1932 Aldous Huxley, nipote dell’Huxley che fu maestro di Wells, pubblica Il mondo nuovo, un romanzo che oggi sarebbe assai opportuno ripresentare convenientemente annotato e introdotto alla luce proprio di quanto sta avvenendo intorno a noi. Opera profetica quant’altri mai, esso descrive proprio un mondo in cui la stabilità politico-sociale è data dall’essere la procreazione esclusivamente in provetta, il che permette adeguata selezione e programmazione dei nuovi nati (gli Alfa, Beta e Gamma). Il problema si verifica quando nasce e cresce un uomo al di fuori di questi canoni: nato per vie naturali da donna e non da una provetta. E’ il Selvaggio che, se non bloccato in tempo, può mettere in crisi il Mondo Nuovo: isolato alla fine su un faro e oggetto dell’attenzione morbosa della gente, non potrà fare altro che suicidarsi.
Naturalmente la fantascienza affronta anche gli aspetti positivi dell’ingegneria genetica proiettata in un futuro lontanissimo: tipico esempio i racconti poi riuniti nel romanzo Il seme fra le stelle (1956) in cui James Blish immagina che l’uomo sia di volta in volta geneticamente modificato, assumendo così forme varie, per poter colonizzare i pianeti dell’universo in cui sussistono condizioni assai diverse da quelle terrestri. Idea ripresa vent’anni dopo da Brian Stableford con il romanzo The Florians.
Il tema dell’ingegneria genetica è di grande attualità: fra le ultime opere che se ne sono occupate possiamo ricordare almeno I figli di Erode di Greg Brear (2003), in cui bambini geneticamente modificati diventano un pericolo per l’umanità che li ha creati e come tali tenuti sotto stretto controllo, e Next di Michael Crichton (2006), in cui il noto autore di bestsellers, specializzatosi negli ultimi anni della sua vita ad andare contro il politicamente corretto, affronta in senso critico proprio i temi della bioingegneria, degli animali transgenici e della selezione di esseri umani con caratteri genetici superiori. Da ultimo, proiettando molto in là l’attuale modus cogitandi et operandi una giornalista economica inglese, Gemma Malley, ha pubblicato un romanzo, La Dichiarazione, che ha ottenuto subito un inaspettato successo: in questa distopia si immagina il mondo del 2149 dove la scoperta di un Farmaco della “eterna giovinezza” ha talmente sovraffollato tanto il pianeta da far considerare illegali nuove nascite (un po’ il caso Cina a livello planetario): chi vuole assumere il Farmaco della longevità deve firmare una Dichiarazione con cui rinuncia ad avere figli.
Ma non sembra proprio che tutte queste odierne denunce, proprio come quelle di cento o duecento anni fa, riescano a fermare la sindrome faustiana della scienza d’oggi.
GIANFRANCO DE TURRIS
Collezionare pseudobiblia
Il sogno di ogni bibliofilo è possedere il Necronomicon del folle arabo Abdul Alhazred (quello vero s’intende, non gli innumerevoli falsi in circolazione), poter sfogliare il De Vermiis Mysteriis del Conte d’Erlette o leggersi con calma e in segreto gli Unasprachlichen Kulten di von Juntz. Un sogno che resterà un sogno, checché se ne dica o se ne possa pensare, dato che questi libri – al pari di vari altri anche più famosi, da Libro di Toth alle Stanze di Dzyan – sono sì spessissimo citati, di essi se ne conoscono sì estratti e brani anche di una certa lunghezza inseriti in saggi e romanzi, ma non si sono mai visti nella loro integrità cartacea. Di essi si sa e si conosce quel che altri, di cui ci si deve ciecamente fidare, affermano o riferiscono o, appunto, citano.
Il fatto è che questi libri non esistono, sono, come li definì in un articolo del 1947 il saggista e narratore americano L.Sprague de Camp, degli pseudobiblia. Libri dati per esistenti, ritenuti da tutti esistenti, ma che in realtà non esistono, non si sono mai visti, “vivono” soltanto in base ai loro estratti e al fatto che vengano vieppiù nominati, o ad essi sempre più spesso si fa riferimento.
Il bello sta appunto in questo: la loro realtà consiste soltanto nel fatto che siano detti e considerati esistenti. Non solo: proprio il fatto che un sempre maggior numero di persone nel corso del tempo e in vari luoghi del mondo credano alla loro esistenza, li ha portati a realtà. (nella foto: H.P. Lovecraft)
Esotericamente si potrebbero definire quasi degli “eggregori”…
Il tutto ha avuto anche un risvolto concreto. In buona o in mala fede, credendoci oppure semplicemente volendosi divertire, ecco che spesso e volentieri di queste opere son cominciate a spuntare delle tracce “fisiche”, vere e proprie prove di esistenza.
Visto che Madame Blavatsky nella sua Dottrina Segreta citava le Stanze di Dzyan (anzi si può dire che la sua opera sia un infinito commento a queste strofe), c’è chi ha giustamente pensato di riunire tutte queste citazioni: ne è ovviamente risultato un Libro di Dzyan che prima non esisteva (anche perché la Blavatsky affermava che le “stanze” fossero scritte su foglie di palma…). Più fortuna ha avuto il Necronomicon, di cui sono in circolazione diverse edizioni in lingua inglese, ovviamente una diversa dall’altra.
Per non parlare delle versioni autonome italiane. In alcuni casi deliziosi divertissement realizzati da amatori e appassionati di Lovecraft e della sua narrativa che in tal modo gli hanno voluto tributare un complesso omaggio, in altri casi pompieristici centoni che seriosamente si vuol far passare a tutti i costi per “veri”. Ma c’è anche chi, bibliofilo artigiano, si è costruito da sé ed in un’unica copia personale il libro dell’arabo pazzo. Conosciamo questo amatore, ma non abbiamo mai avuto il coraggio di chiedergli se per la rilegatura ha usato pelle umana…
Però… però, come non credere alla reale consistenza di un libro, appunto il Necronomicon, citato per la prima volta da Howard Phillips Lovecraft in un racconto del 1921, e del quale egli scrisse nel 1936, un anno prima della morte, una dettagliata Storia e cronologia? Il suo nome appare in molti altri romanzi e film (uno dei quali, spagnolo, è intitolato proprio a lui), fumetti, videogiochi, ormai anche su Internet, mentre – e questo è per noi l’aspetto essenziale – schede bibliografiche saltano fuori ogni tanto in qualche autorevole biblioteca, come la Widener Library della Università di Harward, ed una di esse, se non vado errato, risulta presente addirittura nel catalogo generale della Biblioteca Centrale di Firenze… Inoltre, miracolo dei miracoli per i bibliofili, si ha l’insperata fortuna di trovarlo anche in vendita nei cataloghi antiquari italiani o stranieri. Scherzo o realtà? Non posso dirlo con certezza essendo sempre arrivato in ritardo per l’acquisto… Riporto però il seguente annuncio apparso ormai moltissimi anni fa in un catalogo di una libreria antiquaria americana:
“Alhazred, Adbul, The Necronomicon, Spagna, 1647. Copertina in pelle logorata, ed alcune scoloriture, altrimenti in condizioini molto buone. Molte piccole litografie di segni e simboli mistici. Sembra essere un trattato (in latino) di Magia Rituale. L’ex libris sul primo foglio rivela che il libro proviene dalla Biblioteca della Università del Miskatonic. Al miglior offerente”.
Per chi non lo sapesse, l’Universaità del Miskatonic (della quale peraltro esistono anche magliette propagandistiche con tanto di stemma e di motto: “Ex Ignorantia ad Sapientiam; e Luce ad Tenebras” ! Il sottoscritto ne possiede una…) ha sede ad Arkham, la città della Nuova Inghilterra al centro di molte storie fantastiche e orrorifiche di Lovecraft e del suo circolo di amici. Si tratta dunque dello scherzo di un bibliofilo appassionato? Speriamo di sì, perché il Necronomicon (il Libro delle parole dei morti) è un testo attraverso i cui riti in esso descritti è possibile mettere in contatto il nostro mondo con l’universo assurdo abitato da divinità malefiche che incombono sulla nostra realtà e non aspettano altro che la creazione di un “varco” per penetrarvi. Praticamente quasi tutte le storie lovecraftiane in cui si parla del Necronomicon descrivono i guai che combinano coloro i quali usano male questo grimorio, e i tentativi per porvi rimedio…
Del resto, chi lo compilò, Abdul Alhazred, detto l’ “arabo pazzo”, vissuto nello Yemen all’epoca dei Califfi Omiadi nell’VIII secolo d.C., finì proprio male: testimoni degni di fede affermano che venne afferrato in pieno giorno da un mostro invisibile e divorato orribilmente… Il titolo originale dell’opera è Al Azif, che secondo Lovecraft, “è il termine usato dagli arabi per designare gli strani suoni notturni (dovuti agli insetti) che supponevano essere l’ululato dei dèmoni”.
Il testo originario in arabo è perduto, però, dice sempre lo scrittore di Providece, alcuni esemplari successivi (in latino, greco, spagnolo) sono custoditi gelosamente e ovviamente non consultabili presso varie istituzioni: il British Museum, la Biblioteca Nazionale di Parigi, la citate Università del Miskatonic e di Harward, quella di Buenos Aires. Una copia, superprotetta, starebbe anche in Vaticano, e magari papa Bergoglio nel suo empito democratico e populista ne potrebbe permettere la pubblica consultazione.. Altre sono presso privati, la cui sorte in genere non è raccomandabile.
Si potrebbe fare anche un piccolo sforzo per andarle a ricercare – si sa che certi bibliofili non si fermano di fronte a nulla – con l’avvertenza però che, come ricorda sempre Lovecraft, “il libro è posto rigidamente all’indice da tutte le religioni organizzate del mondo”. Il che, con il clima che si respira, non è proprio un buon viatico…
GIANFRANCO de TURRIS
Il crollo della borsa cinese più distruttivo di un asteroide?
Cina, fino a quando?
Per chi non lo sapesse le borse non creano ricchezza, si limitano a raccoglierla. In compenso se capita la distruggono. Lo fanno perché raccolgono denaro sotto forma di investimenti, ed il denaro è ricchezza reale. Non solo e non tanto perché in teoria è sorretto da una analoga quantità d’oro, questo non è più vero da oltre 50 anni. Quanto invece perché per ottenere denaro è necessario produrre ricchezza che viene trasformata in denaro.Non è vero che gli stati possono stampare liberamente ed impunemente carta moneta, è ed è sempre stato molto più complicato di così: in realtà se lo fanno creano inflazione (debito) che prima o poi in un modo o in un altro qualcuno dovrà pagare.
Il fatto è che qualcuno (non mi ricordo più chi, un fisico americano, 30 anni fa) ha detto che il denaro è una forma di concentrazione dell’energia, quindi se distruggi il denaro distruggi energia, quindi comunque una forma di ricchezza. Un esempio concreto: con un capitale investito (energia applicata ad uno scopo) io costruisco una diga, che serve a produrre corrente elettrica che vale denaro e che viene scambiata per denaro. Poi io vendo la diga ed ottengo un profitto (ho creato altro denaro quindi altra energia) oppure no, ed in tal caso ho perso denaro quindi ho distrutto energia. In borsa quando c’è un crollo e vengono registrate “perdite” è come se qualcuno materialmente distruggesse non solo del denaro, bruciando banconote, ma anche ricchezza reale: una perdita di 100 milioni di euro in una borsa vuol dire che sono state materialmente distrutte 10 dighe del valore di 10 milioni di euro l’una.
Una catastrofe spaventosa
A me i vampiri, i lupi mannari, i fantasmi non fanno paura, perché so che non esistono; non mi fa paura il Virus Ebola, perché ho capito che è pericoloso sì, ma che quando sono stato in Senegal e non avevo fatto la profilassi anti-malarica ho rischiato di più. Non mi fa paura il buco dell’ozono, la deforestazione, le polveri sottili, lo sciogliemento dei ghiacci tutte cose realmente pericolose per carità, cui secondo me si dovrebbe porre rimedio, ma non così pericolose come il crollo delle borse cinesi di qualche tempo fa. In quel crollo, che all’inizio è passato quasi inosservato in occidente, sono andati distrutti 150 miliardi di dollari, corrispondenti per altro a circa il 20% dei profitti dell’anno in corso di quelle stesse borse, mi sembra di aver capito. E’ stata una catastrofe economica spaventosa, una distruzione di ricchezza reale di portata epocale. Non riesco a fare paragoni ma pensate che 150 miliardi di dollari equivalgono al vecchio conio a 300.000 miliardi di lire: in cifra 300.000.000.000.000. Quando ne ho avuto notizia su Radio24ore per un attimo ho pensato stessero scherzando, poi ho capito che era tutto vero e mi sono spaventato. Mi sono chiesto: quante sono le possibilità che la crisi arrivi fino in occidente e che in concomitanza con la crisi in Grecia, crolli tutto il sistema economico mondiale? E se questo accade io a casa provviste per sopravvivere quante ne ho? Dove lo trovo un fucile e relative munizioni? Potrò coltivare patate sul mio balcone?
La finanza mondiale è un unico sistema
Non scherzo, sapete? Tutto il sistema economico planetario è strettamente interconnesso. La crisi economica nella quale ci troviamo e che dura dal 2008 è nata perché negli Stati Uniti i famosi mutui sub-prime per comprare la prima casa sono stati concessi con troppa facilità ed erano a rischio; hanno cominciato a non essere onorati e tutto il sistema dei derivati, ossia dei titoli che avevano quei mutui come garanzia, è crollato, facendo crollare le borse e portando alla chiusura della Lehman and Brother, banca antica e solida. E da lì la crisi a tutt’oggi. La crisi greca non può affondare Europa e borse e sistema globale, ma quella cinese sì, oh se può! Fra l’altro quella di cui si è paralto è stata la seconda. Circa un mese prima ce n’è stata un’altra ed è passata quasi sotto silenzio ed è rientrata nel giro di 24 ore e sapete perché? Perché il governo cinese, che non ve lo dimenticate è un governo comunista dittatoriale, ha tranquillamente eslcuso dal mercato il 70/80% dei titoli quotati. Una cosa che nessuno in occidente avrebbe potuto neanche solo pensare di poter fare. Per cui la crisi di allora è finita subito e la seconda è rientrata presto. Per ora.
La Cina fa paura
Ma ci sono altri segnali di pericolosità della Cina. In Cina stanno seriamente progettando di costruire una città di 130 milioni di abitanti entro il 2050 che comprenda Pechino e dintorni. Lo stato cinese possiede il 20% dei bonds del debito pubblico americano ma al tempo stesso ha a sua volta un debito pubblico di 18.000 miliardi di dollari. Ve lo scrivo per esteso? 18.000.000.000.000. Che con il “vecchio conio” , in lire (scusate ho una certa età, mi riesce difficile non farlo) sono 36.000. 000.000.000.000.000. Non so so nemmeno bene pronunciare… Il che secondo me dimostra alcune cose:
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che il mercato totalmente libero in vigore in occidente sarà anche bello e vincente ma solo se tutto funziona, se no è pericolosissimo
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che avere almeno un governo comunista al mondo è molto utile al mercato capitalista, ma questo non vuol dire che sia utile all’economia globale
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che la cina sia un paese con una economia capitalista, ovviamente non è vero. E’ una economia mista. Ma considerate che esisteva una borsa anche in Russia ai tempi dell’unione sovietica, non è una novità.