Il Tredicesimo Cavaliere

Scienze dello Spazio e altre storie

Space Halloween

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Il prossimo Halloween potrebbe essere una buona occasione per fare conoscenza con Astronomitaly, un’iniziativa nata dalla passione di alcuni amici per l’osservazione delle stelle. Con l’evocativo titolo “Space Halloween, orrori dallo spazio“, l’associazione presenta così il suo evento su Facebook: stelle defunte, esplosioni devastanti, scheletri cosmici, è una notte per osservare la Luna e le stelle e scoprire gli orrori dello spazio!

Guidati dal nostro staff osserveremo la Luna e scopriremo la sua storia terrificante, punteremo i nostri telescopi verso le stelle e racconteremo del loro trapasso cosmico assieme ad altre storie orripilanti dell’Universo. Porta con te il tuo smartphone e scatta incredibili fotografie della Luna dai nostri telescopi! Non sono più rassicuranti sul loro sito quando affermano che, se avete paura del buio, l’Universo non è un posto adatto a voi. È un luogo di estrema oscurità, lontano dalle luci confortanti di una casa. L’Universo è uno spazio immenso e silenzioso dominato dalle tenebre. Se questo non fosse sufficiente a spaventarvi, sappiate che è anche popolato da presenze terrificanti. Mentre sulla Terra zombi, vampiri e fantasmi escono fuori solo per Halloween, mostri d‘altro genere si aggirano costantemente sopra le nostre teste”.

HAL1Così il lettore apprende che esistono anche le stelle zombie, descritte in questo modo: Sono alcune stelle che tornano in vita in modo violento e drammatico. Gli astronomi le chiamano stelle zombi, supernove di “tipo Lax”, esplosioni enormi e potenti che proiettano materia stellare tutto intorno a se nell’Universo. Le supernove di questo tipo esplodono in sistemi binari che contengono almeno una nana bianca, una piccola stella super densa che ha cessato le reazioni di fusione nucleare. Le nane bianche sono “morte”, ma non necessariamente rimangono tali in un sistema binario. Possono tornare in vita, anche se brevemente, con la gigantesca esplosione di una supernova, traendo materiale dalle stelle compagne o attraverso la fusione con esse”. 

halloween-3O le stelle vampiro che proprio come i “veri” vampiri, alcune stelle si mantengono giovani succhiando la forza vitale da sventurate vittime. A causa dell’attitudine del cervello umano a ricondurre immagini casuali a oggetti noti, capita di osservare nel firmamento anche schiamazzi di streghe, teschi incandescenti e occhi giganti che ci guardano a loro volta. Formate da gas incandescenti e polveri sono chiamate nebulose e sono sparse per tutto l’Universo.

Ghost-Cloud-m9wctywituit439nc2cj1osuqz46xdieo4sthm8mb0Che dire della reale minaccia rappresentata dagli asteroidi? Gli esperti affermano che l’impatto con una roccia spaziale del diametro medio superiore a un km può spazzare via l’intera civiltà umana. E anche asteroidi che misurano appena 50 metri possono infliggere gravi danni e perdite umane se colpiscono nei pressi di un centro abitato. L’impatto con un asteroide è, con tutta probabilità ciò che, milioni di anni fa, ha spazzato via dalla Terra i dinosauri creando spazio per animali più piccoli e versatili, i mammiferi. 

Astronomitaly, con questa sua iniziativa del 31 ottobre prossimo, sembra volerci dire che comunque, al di là della sua bellezza, il cielo stellato va tenuto d’occhio. E quali migliori guide di alcuni appassionati che forniscono agli intervenuti anche gli strumenti per l’osservazione? Astronomitaly, infatti, non si limita a lanciare l’iniziativa per Halloween, ma propone dei percorsi in tutta Italia che condurranno i partecipanti nei luoghi dovè migliore l’osservazione delle stelle. A questo scopo, l’associazione ha ideato la certificazione “I cieli più belli d’Italia” che identifica i migliori luoghi da dove gli astrofili possono operare.

Questo riconoscimento viene assegnato alle location che godono di un cielo stellato di qualità o che, in un percorso di qualificazione e miglioramento, desiderano valorizzarlo offrendo esperienze e servizi dedicati all’Astroturismo.

 GIANVITTORIO FEDELE

 

(Si ringraziano la Nasa e Astronomitaly per l’uso delle fotografie)

27 ottobre 2015 Posted by | Astrofisica, Difesa Planetaria, News, Planetologia, Scienze dello Spazio | , , , , | 1 commento

INDIA2 – Il programma spaziale indiano guarda lontano.

Il 28 Settembre 2015, la missione PSLV-C30 dell’Indian Space Research Organisation’s (ISRO), cioè l’agenzia Indiana per le ricerche spaziali, ha messo in orbita con successo sette satelliti nello spazio. Questa missione è significativa per diverse ragioni:

  • il suo carico utile principale era un satellite denominato ASTROSAT, il primo osservatorio astronomico indiano a studiare gli oggetti celesti lontani. ASTROSAT può essere considerata la prima missione indiana a scopo interamente scientifico, mentre per molti anni il programma spaziale dell’ISRO è stato orientato principalmente alle applicazioni

  • questo era il trentesimo lancio consecutivo positivo del Polar Satellite Launch Vehicle (PSLV), un razzo che ha già lanciato nello spazio 84 satelliti

  • a bordo c’erano altri sei satelliti: uno indonesiano, uno canadese e quattro nano-satelliti statunitensi. Mettendo questi sei satelliti in orbita, l’India ha ora lanciato 51 satelliti per conto di altre nazioni. Pur essendoci una lunga storia di collaborazioni in ambito spaziale tra l’India e gli Stati Uniti, questa è la prima volta che un’organizzazione americana ha utilizzato un razzo indiano per lanciare i propri satelliti

  • negli ultimi anni ISRO è stata in grado di lanciare una media di due o tre razzi l’anno. PSLV-C30 è il quarto lancio effettuato dall’ISRO nel 2015, e sono ancora previsti uno o due lanci nei prossimi tre mesi

  • Infine, in questa missione era presente una maggiore partecipazione dell’industria indiana. Secondo l’ISRO, per questa missione l’industria ha contribuito quasi il 70% del veicolo, particolarmente nel settore componentistico. Inoltre, l’industria spaziale indiana è stata in grado di soddisfare la difficile tabella di marcia dell’ISRO

astrosat1La vera stella di questa missione è però ASTROSAT. Questo satellite, dal peso di 1.513 chilogrammi, è stato immesso in orbita a un’altitudine di 650 chilometri con un’inclinazione di sei gradi. Il satellite sarà in grado di fare osservazioni dell’universo alla luce visibili, agli ultravioletti e ai raggi X ad alta e bassa energia. La missione ha una durata prevista di 5 anni, e ha cinque strumenti a bordo per studiare vari processi astrofisici. L’ISRO ha progettato questi carichi in collaborazione con varie agenzie spaziali indiane che fanno ricerca nel settore astrofisico. Per alcuni carichi i partner sono stati l’Agenzia Spaziale Canadese e l’Università di Leicester del Regno Unito, che hanno realizzato la camera CCD installata sul Soft X-ray Telescope (SXT) in grado di captare i raggi X deboli.

Secondo l’ISRO, “gli obiettivi scientifici della missione ASTROSAT sono la comprensione dei processi ad alta energia nei sistemi stellari binari con stelle di neutroni e buchi neri, stimare i campi magnetici delle stelle di neutroni, studiare le regioni dove nascono le stelle e i processi ad alta energia nei sistemi stellari oltre la nostra galassia. Compito della missione è anche rilevare nuove sorgenti di raggi X ed effettuare un’indagine limitata a campo profondo dell’universo agli ultravioletti”.

astrosat2L’ISRO ha cominciato il suo viaggio nello spazio con dei satelliti multifunzione, con strumentazionei essenzialmente nei settori meteorologico e delle comunicazioni. Per molti anni l’ISRO si è concentrata sullo sviluppo dell’osservazione terrestre e sui satelliti per il telerilevamento. Più di recente l’India ha fatto degli investimenti significativi nei sistemi di navigazione basati nello spazio. Le missioni verso la Luna e Marte avevano fondamentalmente l’obiettivo di una dimostrazione di capacità tecnologiche. ASTROSAT può essere dunque considerato la prima missione indiana a scopo esclusivamente scientifico. Questo satellite è il primo osservatorio indiano concepito per studi simultanei a multi frequenza in grado di fornire una comprensione complessiva dell’universo. Il costo stimato di ASTROSAT è di circa 24 milioni di Euro.

astrosat4Ci sono molti altri osservatori spaziali lanciati in passato, come il Rossi X-ray Timing Explorer, il Chandra X-ray Observatory, XMM-Newton, Galex, FUSE, and Suzaku. Queste missioni hanno delle capacità a banda stretta, o nelle regioni ai raggi X o agli ultravioletti, mentre ASTROSAT ha capacità di osservazione a banda larga in entrambe le regioni. La missione si concentra sull’imaging ultravioletto ad alta risoluzione per lo studio morfologico degli oggetti galattici e ultragalattici, studi a banda larga di fonti di emissione a raggi X e altri obiettivi con diverse lunghezze d’onda, dalle stelle più vicine ai nuclei galattici attivi più distanti.

Per sviluppare questo satellite astronomico è stato necessario molto più tempo del previsto. Il progetto è iniziato nel 2004, ma per gli scienziati è stato molto complesso sviluppare i vari strumenti scientifici della missione. Ci sono voluti 11 anni per creare l’SXT. Questo telescopio necessita di 320 specchi di alluminio, che sono progettati con enorme precisione e hanno un sottile rivestimento d’oro. Questi specchi sono disposti come gusci concentrici, con dei montanti per fissarli. La precisione del loro posizionamento è di 20 micron, vale a dire uno spessore inferiore a quello di un capello umano. Secondo gli scienziati coinvolti nel progetto, soltanto mettere a punto questi specchi è costato tre anni di lavoro. Questo carico è stato sviluppato dal Tata Institute of Fundamental Research (TIFR) di Mumbai, India, e l’Università of Leicester. Il lancio del satellite era originariamente previsto per il 2010, ma per una serie di ragioni è stato poi procrastinato.

astrosat3L’India ha lanciato il suo primo satellite nel 1975, chiamandolo Aryabhata, dal nome di un astronomo indiano. Questo satellite doveva svolgere specifici esperimenti scientifici che coinvolgevano un’astronomia a raggi X e il rilevamento di neutroni ad alta energia e raggi gamma dal sole, più altri oggetti come carico pagante. Benché l’avventura spaziale indiana sia cominciata con un approccio scientifico, non continuò allo stesso modo, concentrandosi invece negli ultimi quarant’anni su programmi orientati all’applicazione. L’India investì nel settore spaziale essenzialmente a scopo di sviluppo socio-economico. L’ISRO lanciò satelliti principalmente per il telerilevamento, le comunicazioni, la meteorologia e la navigazione. L’unica eccezione furono le sue missioni sulla Luna e su Marte. In qualche caso limitato alcuni satelliti indiani trasportarono alcuni carichi paganti aventi scopo scientifico. GSAT-2 (lanciato nel maggio 2003) portava quattro carichi utili sperimentali, inclusi un RADOM (radiation dose monitor) e uno spettrometro a raggi X. Anche un satellite denominato YouthSat, una missione congiunta di studenti universitari indiani e russi, aveva strumenti scientifici per osservare le eruzioni solare e studiarne l’impatto sulla nostra atmosfera.

L’India viene talvolta criticata per il fatto di intraprendere missioni con una massa di carico utile scientifico molto limitata. Ad esempio il carico scientifico della missione lunare Chandrayaan-1 Moon aveva una massa totale di 90 chilogrammi e 11 strumenti, mentre la missione Marte portava solo cinque sensori per un peso complessivo di 15 chilogrammi. L’ISRO non è in grado di lanciare veicoli più pesanti date le limitazioni inerenti al razzo PSLV, ma per missioni su un’orbita bassa come ASTROSAT il PSLV è in grado di sollevare carichi molto più pesanti

astrosat5ASTROSAT non ha un significato solo per l’astronomia, ma indica che l’India è ora pronta a sviluppare delle missioni con satelliti a finalità puramente scientifica. Fino ad ora l’India non era pronta per investire sulle missioni scientifiche. Durante gli ultimi quarant’anni l’India ha fatto progressi significativi in molti campi scientifici. Ora, dopo aver dedicato sufficienti investimenti verso lo sviluppo di risorse tecnologiche volte a soddisfare le necessità di servizi sociali, l’India sembra pronta a investire nelle missioni scientifiche pure. L’India non dovrebbe avere più timore delle critiche sia interne che internazionali relative al conflitto tra gli investimenti aventi per fine la ricerca scientifica e quelli contro la povertà. In realtà, investire in modo intelligente nella tecnologia favorisce la prosperità. Sono gli investimenti nella scienza che possono poi risultare in un maggiore sviluppo tecnologico, pertanto l’ISRO dovrebbe investire ancora di più nelle missioni scientifiche.

Titolo originale: “India’s space program looks outwards” di Ajey Lele, pubblicato su The Space Review il 5 ottobre 2015. Il Dr. Lele lavora presso l’Institute for Defence Studies and Analyses (IDSA) un centro studi con sede a New Delhi specializzato su problemi relativi alla sicurezza. Ha ricevuto inoltre il dottorato di ricerca in Fisica e quello in relazioni internazionali. Le sue ricerche si concentrano su argomenti relativi alle tecnologie delle armi strategiche di distruzione di massa. A suo credito può vantare inoltre una intensa attività come pubblicista.

traduzione di DONATELLA LEVI

editing ROBERTO FLAIBANI

21 ottobre 2015 Posted by | Astrofisica, Astronautica, News, Scienze dello Spazio | , , , | Lascia un commento

La storia del volo spaziale senza razzi

V2-6La fine della Seconda Guerra Mondiale

Essere presente alla nascita dell’Era Spaziale non è stata necessariamente una bella esperienza. Mia sorella, mia madre e io eravamo addormentati, rinchiusi nei confini di un rifugio Morrison, un tavolo d’acciaio progettato per ridurre le perdite nel caso una bomba tedesca fosse caduta sulla vostra casa, alle sette in punto di uno scuro mattino di giovedì 25 gennaio 1945. L’impatto della V2 all’incrocio tra Lavender Hill e Gordon Hill, oltre un chilometro e mezzo più in là, fece tremare il terreno e ci svegliò. Io indovinai che cos’era: cresciuto per cinque anni in tempo di guerra, ero per necessità ben informato riguardo alle V1 e V2.

Io credo che, nonostante la buona informazione che tutti avevano in merito alla sua tecnologia, il successo della V2 come veicolo di lancio fu nemico dello sviluppo dei viaggi spaziali.

Come tutti i ragazzi mi fermavo instancabilmente per osservare disastri come quello e ricordo la mia delusione quando mi resi conto che non potevo vedere la devastazione perché il percorso del bus fino alla scuola era bloccato dai detriti. Ma il giorno dopo abbiamo raggiunto Lavender Hill vicino ad una vasta area completamente distrutta. Otto persone erano rimaste uccise e altre 68 avevano subito gravi ferite, ma come gesto di sfida un piccolo albero fu decorato con l’Union Jack che sventolavamo nelle occasioni ufficiali.

V2-4Eppure il razzo V2 non fu mai l’arma decisiva per la vittoria su cui Hitler aveva contato. Uccise circa 9.000 persone, quasi tutti civili, ma invece provocò grandi danni economici alla Germania. Costò l’equivalente di circa 20 miliardi di dollari, tanto quanto il progetto Apollo, ma ebbe luogo all’interno di un’economia ben più piccola e non diede alcun vantaggio militare significativo. Quello che la V2 effettivamente fece fu di incorporare la tecnologia di lancio spaziale in un sistema che domina il settore ancora oggi.

La competizione con i Sovietici.

Negli anni 30, Robert Goddard negli Stati Uniti e Herman Hobert in Germania avevano già dimostrato che l’ossigeno e gli idrocarburi combustibili, usati in combinazione con gli ugelli de Laval fornivano una potenza straordinaria in una partenza da fermi. La V2 aveva dimostrato che dei sistemi di guda e stabilizzazione potevano trasformare questa combinazione in missili di straordinaria efficienza. Con l’arrivo della bomba atomica si creò l’arma definitiva: il missile balistico intercontinentale (ICBM). Sergei Korolev, (sopranominato dai suoi “Il grande progettista”) ne usò la versione sovietica per mettere in orbita gli Sputnik, poi Yuri Gagarin e così via. Come risposta, dall’America giunsero Mercury, Gemini e così via. Fino al giorno d’oggi, il solo modo sicuro per mettere qualcosa fuori dal pianeta è stato usare ossigeno liquido e un combustibile e puntare dritti verso l’alto.

V2-3Ma supponiamo che….

A questo punto, però, devo emanare un allarme per la salute. Per la mia salute mentale, in realtà. Perché io credo che, nonostante la sua tecnologia sia stata universalmente adottata, il successo della V2 come veicolo di lancio sia stato nemico dello sviluppo del volo spaziale. Per capire perché, supponiamo che la Seconda Guerra Mondiale non abbia avuto luogo.

Tutto ciò non è campato in aria come potrebbe sembrare. Nell’archivio Nazionale Britannico di Kew, nella parte meridionale di Londra, si trovano piani, una volta segretissimi, per l’eliminazione a sorpresa dell’intera flotta da guerra tedesca e la successiva invasione dello Schleswig-Holstein. Se i piani fossero stati portati avanti con successo il Kaiser (che non era necessariamente il Signore della Guerra che aspirava a diventare) sarebbe stato convocato al tavolo delle trattative all’inizio del 1916. La Polonia avrebbe potuto essere ricostruita col ruolo di stato cuscinetto tra Russia e Germania, Alsazia e Lorena trasformati in ducati indipendenti e quindi rimossi come punti di frizione tra Francia e Germania, la Rivoluzione d’Ottobre non sarebbe accaduta, mentre la Germania avrebbe continuato la sua evoluzione verso una forma di socialdemocrazia. Ne parlo con un pizzico d’autorità: ho dato la caccia a queste informazioni nell’Archivio Nazionale e ho scritto una storia alternativa della Prima Guerra Mondiale, intitolata The Iron Dice.

Nel nostro ipotetico e pacifico pianeta, negli anni ’50 avremmo forse inviato in orbita dei satelliti per trasmettere programmi radio, e negli anni ’60 quelli per la televisione in bianco e nero. E così via.

V2-2La nuova Era Spaziale

Poi Goddard e Oberth potrebbero aver acquisito qualche piccolo finanziamento per il loro lavoro e ciò li avrebbe indotti a credere che gli enormi investimenti in tecnologia necessari per ottenere la presenza dell’uomo nello spazio grazie ad una colonna di fuoco ottenuta dal mescolamento dell’ossigeno al kerosene, non erano destinati ad avverarsi durante quello che Winston Churchill chiamava “le alture soleggiate di un tempo di pace”. Sarebbe stato necessario un approccio più semplice. Forse l’éscamotage sarebbe stato quello di trasferire il pilota nella stratosfera su quello che poteva sembrare un aereoplano, e poi utilizzare un razzo più modesto per portarlo fino all’orbita bassa (LEO).

Lo statoreattore (altrimenti noto come  ramjet), è stato brevettato negli anni ’20, e nel ’36 René LeDuc dimostrò che avrebbe funzionato, e se fosse stato abbastanza veloce lo avrebbe fatto anche nell’aria sottile dell’alta atmosfera. Certo, è che deve essere trascinato nell’aria a una velocità di almeno 160 kmh prima di riuscire a produrre una spinta utile. Ma le ferrovie europee erano già in grado di fornire quella velocità. Così, un aeroplano interamente in metallo con grandi statoreattori sotto le ali e montato su di un vagone ferroviario avrebbe potuto effettivamente decollare e sfrecciare verso il cielo.

E poi cos’altro? Razzi a propellente solido capaci di trasportare aerei fino alla LEO erano stati inventati nei primi anni ’40. Arthur C. Clarke propose il concetto di satellite geostazionario nel ’45. Il nostro ipotetico e pacifico pianeta avrebbe potuto mettere in orbita satelliti per le comunicazioni radio fin dal 1950. Nel decennio successivo sarebbe stata la volta della TV b/n. E così via.

V2 - 1Il problema più grosso, in questa ipotesi, è che, in presenza di un’equipaggio, dopo averli mandati su, avrebbero dovuto inventarsi anche un sistema per riportarli giù. Il problema del rientro sembrava davvero grosso. Non essendo stati mandati su in una capsula, ma in un aereo, in quell’aereo avrebbero dovuto tornare. Non era possibile utilizzare la teoria del corpo contundente e ablare la punta e i bordi d’attacco. O forse sì?

( N.D.T.) I lettori si saranno resi conto che l’ultima frase è del tutto incomprensibile. Ho chiesto il parere di parecchi colleghi e amici, ma niente, non c’è stato verso di venirne a capo. Finché in piena zona Cesarini non arrivano le parole di Mastro Stephen Bianchini, il nostro personale santo in paradiso: “La teoria si riferisce a Julian Allen, un astrofisico che ha scritto sul tema.”

Io mi fermo qui, ma i lettori hanno afferrato l’idea: una corsa allo spazio più calma, più lenta e meno priapica!

Titolo originale: ”An alternate, rocket-free history of spaceflight” di John Hollaway, pubblicato su The Space Review il 12 ottobre 2015

traduzione di ROBERTO FLAIBANI

editing di MASSIMO MONGAI

19 ottobre 2015 Posted by | Fantascienza, Scienze dello Spazio | , , , , | Lascia un commento

eso8. Fondare colonie

 Abbiamo voluto riproporre con la sigla eso, che contraddistingue gli interventi dedicati agli esopianeti, questo articolo apparso sulle nostre pagine ormai un paio di anni fa. Anche se gli eccessi e i fraintendimenti nell’uso del termine abitabilità continuano, anzi dopo il ritrovamento di tracce d’acqua sulla superficie di Marte ormai dilagano, concetti alternativi come colonizzabilità e demandite rimangono molto interessanti, e questo articolo, che ne parla, mantiene intatto il suo valore. (RF)

 eso8 MarsOneLe sonde dedicate alla ricerca degli esopianeti continuano a fornire risultati interessanti. Sappiamo ora che la maggior parte delle stelle possiede sistemi planetari, e che una sorprendente percentuale di questi sarà costituita da pianeti delle dimensioni della Terra, situati nella loro zona di abitabilità, cioè la regione in cui non fa né troppo caldo né troppo freddo, e la vita come noi la conosciamo può svilupparsi. Gli astronomi sono completamente affascinati dal concetto di zona di abitabilità e da quello che potrebbero trovare. Abbiamo l’opportunità, nell’arco della nostra esistenza, di scoprire se la vita esiste fuori dal nostro sistema solare e forse quanto essa è comune. Abbiamo anche un’altra opportunità , meno frequentata dagli astronomi ma comune tra gli scrittori di fantascienza. Per la prima volta nella storia, possiamo essere in grado di identificare mondi dove potremmo trasferirci e vivere. Nel momento in cui decidiamo di riflettere sulla seconda possibilità, è importante tenere bene in mente che abitabile e colonizzabile non sono sinonimi.

Nessuno sembra accorgersene, ma non è possibile trovare alcun termine se non “abitabilità “ per descrivere gli esopianeti che stiamo trovando. Che un pianeta sia abitabile, in accordo con la definizione corrente del termine, non ha niente a che vedere con la possibilità che degli esseri umani si stabiliscano in quel luogo. Cosi il termine si applica a luoghi che sono di importanza vitale per la scienza ma non si applica necessariamente a luoghi dove noi vorremmo effettivamente andare. In altre parole il fatto che un pianeta sia abitabile (secondo l’attuale definizione) non ha niente a che fare con l’eventuale fondazione di una colonia.

eso8 supeterraLa differenza tra abitabile e colonizzabile

Rivolgiamo la nostra attenzione verso due pianeti molto diversi tra loro: Gliese 581g e Alpha Centauri Bb. Non abbiamo conferma dell’esistenza di nessuno dei due ma abbiamo abbastanza dati per poter dire a che cosa assomigliebbero se la loro esistenza venisse confermata.

Gliese 581g è una super-terra che orbita nel mezzo della zona di abitabilità della sua stella, ciò significa acqua liquida che scorre liberamente in superficie e lo rende un mondo abitabile secondo l’attuale definizione.

Centauri Bb, al contrario, orbita molto vicino alla sua stella e la sua temperatura in superficie è probalbilmente abbastanza alta da rendere uno dei suoi emisferi un mare di magma (il pianeta è collegato alla sua stella da un sistema di maree come la Luna lo è alla Terra). Alpha Centauri Bb viene considerato dai più non abitabile. Gliese 581g è abitabile e Centauri Bb non lo è ; ma ciò significa forse che il primo è più colonizzabile del secondo? In effetti non lo è. Dato che Gliese 581g è una super-terra, ovviamente la gravità in superficie sarà maggiore che sulla Terra. Le stime variano ma si arriva anche a ippotizzare una forza di gravità pari a 1,7g, come dire che un uomo di 78 chili ne peserà oltre 125 su Gliese 581g. Se il nostro uomo convertisse tutto il suo attuale grasso corporeo in massa muscolare potrebbe essere in grado di andare in giro senza usare supporti ortopedici per la deambulazione, se non proprio una sedia rotelle. Comunque il suo sistema cardiovascolare sarebbe sottoposto a uno sforzo permanente e  non ci sarebbe modo di rendere il suo habitat più confortevole.

eso8 - base minerariaAll’opposto, Centauri Bb è circa delle stesse dimensioni della Terra, e la gravità in superficie è probabilmente la stessa. Siccome si trova in risonanza mareale con il suo sole, un emisfero è sicuramente ricoperto da un mare di lava, ma l’altro emisfero, quello permanentamente in ombra, sarà più freddo, potenzialmente molto più freddo. È probabile che non ci sia nemeno un soffio di atmosfera, né acqua liquida, ma come posto dove costruire un avanposto non sarebbe da buttar via. Bisogna considerare anche che spostare materiali dalla superficie all’orbita bassa sarebbe più facile nel caso di Centauri Bb, mentre l’atmosfera presumibilmente spessa di Gliese 581g renderebbe più difficile la soppravivenza degli esseri umani. Senza dubbio Gliese è un buon candidato per lo sviluppo della vita, ma secondo me Centauri Bb è un candidato migliore per ospitare una colonia.

 Definizione di colonizzabilità

 Abbiamo una definizione molto buona di cosa rende abitabile un pianeta: una temperatura stabile, atta alla formazione di acqua liquida in superficie. È possibile sviluppare una definizione di colonizzabilità per un pianeta, egualmente o più soddisfacente. Come prima cosa un mondo colonizzabile deve avere una superficie accessibile. Una super-terra con un’atmosfera incredibilmente spessa e una gravità di superficie di 3 o 4g è del tutto non colonizzabile, sebbene vi si possa trovare abbondanza di vita.

eso8 exocity1 In secondo luogo, gli elementi giusti devono essere accessibili sul pianeta perchè esso sia colonizzabile. A prima vista sembra un po’ sconcertante, ma che succederebbe se Centauri Bb fosse l’unico pianeta nel suo sistema, e ci fossero solo tracce di azoto? Non è un problema di quantità, un pianeta come quello (in un sistema stellare come quello) non potrebbe dare supporto a una colonia di forme di vita terrestre. L’azoto, anche solo tracce di esso, è un componente critico della vita biologica.

 In un articolo intitolato The Age of Substitutibility, pubblicato su Science nel 1978, H.E. Goeller e A.M. Weinberg hanno proposto un minerale artificiale chiamato Demandite. Si presenta in due forme. Una molecola di Demandite industriale conterrà tutti gli elementi necessari per una industria edile e manifatturiera nelle proporzioni che uno otterrebbe se prendesse, diciamo, una città di media dimensione e la riducesse in polvere finissima. Ci sono 20 elementi nella Demandit industriale, incluso carbonio, ferro, sodio, cloro, ecc…

All’opposto, la Demandite biologica è composta quasi interamente di solo 6 elementi: indrogeno, ossigeno, carbonio, azoto, forforo e zolfo. (Se un intero sistema ecologico venisse macinato e si osservassero le proporzioni di questi elementi, potresti in realtà scoprire che esiste una singola molecola con le esatte proporzioni richieste: si chiama cellulosa).

 eso8 exocity2Terzo, in superficie deve esserci un flusso di energia in qualche modo gestibile. Il posto può essere tanto rovente che ghiacciato, ma deve essere possibile per noi muovere liberamente il calore. Di sicuro questo non è fattibile sulla superficie di Venere, che, con i suoi 800 gradi di temperatura obbligherebbe il vostro sistema di aria condizionata a un demenziale super lavoro solo per superare l’inerzia termica. L’accesso a un gradiente termico o energetico è quello che rende possibile il lavoro fisico. Ovviamente cose come la pressione superficiale, l’intensità stellare, la distanza della Terra giocano una grande parte, questi sono i tre fattori più importanti che io posso vedere. Dovrebbe essere ovvio all’istante che essi non hanno nessun rapporto con la distanza dei pianeti dal loro sole. Non c’è una “zona colonizzabile” come invece esiste una “zona abitabile”. Bisogna osservare la situazione pianeta per pianeta.

Si noti che, secondo queste definizioni, Marte è solo marginalmente colonizzabile. Perchè? Non a causa della sua temperatura o della bassa pressione atmosferica, ma perchè è scarsamente dotato di azoto, almeno in superficie. Una combinazione di Marte e Ceres potrebbe essere qualcosa di colonizzabile, se Ceres avesse una buona scorta di azoto nella sua borsetta del trucco, e questa idea di ambienti combinati in attesa di colonizzazione complicava la visione d’insieme. Probabilmente non siamo in grado di rilevare un oggetto delle dimensioni di Ceres, se orbitasse intorno ad Alpha Centauri. Cosi la lunga distanza che ci separa da un pianeta candidato alla colonizzazione difficilmente potrebbe esere considerata come un elemento a sfavore. Al contrario, se possiamo rilevare la presenza di tutti gli elementi necessari per la vita e per l’industrializzazione in un pianeta all’incirca di dimensioni terrestri, possiamo considerarlo come candidato alla colonizzazione senza badare al fatto che si trovi o meno nella zona abitabile della sua stella.

 eso8 exocity3La colonizzabilità di un pianeta accessibile e dotato di un buon gradiente termico, può essere valutata in funzione di quanto la sua composizione si avvicini alla composizione della Demandite industriale e biologica. Probabilmente dovremo diventare molto accurati nella determinazione di tali valori. Questo, e non l’abitabilità, è il giusto modo di valutare quali mondi dovremmo desiderare visitare.

 Ricapitolando, propongo che venga aggiunto un secondo criterio di misura oltre alla già esistente scala di abitabilità nello studio degli esopianeti. L’abitabilità di un pianeta non ci dice nulla in merito al grado di attrazione che potrebbe avere sui visitatori. Colonizzabilità è la metrica perduta per giudicare il valore dei pianeti extrasolari.

Traduzione di ROBERTO FLAIBANI

 

Titolo originale :”A tale of two worlds: habitable, or colonizable?” di Karl Schroeder, pubblicato su Karl Schroeder’s Blog il 18 febbraio 2013

12 ottobre 2015 Posted by | Astrofisica, Astronautica, Scienze dello Spazio | , , , | Lascia un commento

Collezionare pseudobiblia

necronomiconIl sogno di ogni bibliofilo è possedere il Necronomicon del folle arabo Abdul Alhazred (quello vero s’intende, non gli innumerevoli falsi in circolazione), poter sfogliare il De Vermiis Mysteriis del Conte d’Erlette o leggersi con calma e in segreto gli Unasprachlichen Kulten di von Juntz. Un sogno che resterà un sogno, checché se ne dica o se ne possa pensare, dato che questi libri – al pari di vari altri anche più famosi, da Libro di Toth alle Stanze di Dzyan – sono sì spessissimo citati, di essi se ne conoscono sì estratti e brani anche di una certa lunghezza inseriti in saggi e romanzi, ma non si sono mai visti nella loro integrità cartacea. Di essi si sa e si conosce  quel che altri, di cui ci si deve ciecamente fidare, affermano o riferiscono o, appunto, citano.

Il fatto è che questi libri non esistono, sono, come li definì in un articolo del 1947 il saggista e narratore americano L.Sprague de Camp, degli pseudobiblia. Libri dati per esistenti, ritenuti da tutti esistenti, ma che in realtà non esistono, non si sono mai visti, “vivono” soltanto in base ai loro estratti e al fatto che vengano vieppiù nominati, o ad essi sempre più spesso si fa riferimento.

lovecraftIl bello sta appunto in questo: la loro realtà consiste soltanto nel fatto che siano detti e considerati esistenti. Non solo: proprio il fatto che un sempre maggior numero di persone nel corso del tempo e in vari luoghi del mondo credano alla loro esistenza, li ha portati a realtà. (nella foto: H.P. Lovecraft)

Esotericamente si potrebbero definire quasi degli “eggregori”…

Il tutto ha avuto anche un risvolto concreto. In buona o in mala fede, credendoci oppure semplicemente volendosi divertire, ecco che spesso e volentieri di queste opere son cominciate a spuntare delle tracce “fisiche”, vere e proprie prove di esistenza.

necronomicon2Visto che Madame Blavatsky nella sua Dottrina Segreta citava le Stanze di Dzyan (anzi si può dire che la sua opera sia un infinito commento a queste strofe), c’è chi ha giustamente pensato di riunire tutte queste citazioni: ne è ovviamente risultato un Libro di Dzyan che prima non esisteva (anche perché la Blavatsky affermava che le “stanze” fossero scritte su foglie di palma…). Più fortuna ha avuto il Necronomicon, di cui sono in circolazione diverse edizioni in lingua inglese, ovviamente una diversa dall’altra.

Per non parlare delle versioni autonome italiane. In alcuni casi deliziosi divertissement realizzati da amatori e appassionati di Lovecraft e della sua narrativa che in tal modo gli hanno voluto tributare un complesso omaggio, in altri casi pompieristici centoni che seriosamente si vuol far passare a tutti i costi per “veri”. Ma c’è anche chi, bibliofilo artigiano, si è costruito da sé ed in un’unica copia personale il libro dell’arabo pazzo. Conosciamo questo amatore, ma non abbiamo mai avuto il coraggio di chiedergli se per la rilegatura ha usato pelle umana…

necroAPerò… però, come non credere alla reale consistenza di un libro, appunto il Necronomicon, citato per la prima volta da Howard Phillips Lovecraft in un racconto del 1921, e del quale egli scrisse nel 1936, un anno prima della morte, una dettagliata Storia e cronologia? Il suo nome appare in molti altri romanzi e film (uno dei quali, spagnolo, è intitolato proprio a lui), fumetti, videogiochi, ormai anche su Internet, mentre – e questo è per noi l’aspetto essenziale – schede bibliografiche saltano fuori ogni tanto in qualche autorevole biblioteca, come la Widener Library della Università di Harward, ed una di esse, se non vado errato, risulta presente addirittura nel catalogo generale della Biblioteca Centrale di Firenze… Inoltre, miracolo dei miracoli per i bibliofili, si ha l’insperata fortuna di trovarlo anche in vendita nei cataloghi antiquari italiani o stranieri. Scherzo o realtà? Non posso dirlo con certezza essendo sempre arrivato in ritardo per l’acquisto… Riporto però il seguente annuncio apparso ormai moltissimi anni fa in un catalogo di una libreria antiquaria americana:

Alhazred, Adbul, The Necronomicon, Spagna, 1647. Copertina in pelle logorata, ed alcune scoloriture, altrimenti in condizioini molto buone. Molte piccole litografie di segni e simboli mistici. Sembra essere un trattato (in latino) di Magia Rituale. L’ex libris sul primo foglio rivela che il libro proviene dalla Biblioteca della Università del Miskatonic. Al miglior offerente”.

necroBPer chi non lo sapesse, l’Universaità del Miskatonic (della quale peraltro esistono anche magliette propagandistiche con tanto di stemma e di motto: “Ex Ignorantia ad Sapientiam; e Luce ad Tenebras” !  Il sottoscritto ne possiede una…) ha sede ad Arkham, la città della Nuova Inghilterra al centro di molte storie fantastiche e orrorifiche di Lovecraft e del suo circolo di amici. Si tratta dunque dello scherzo di un bibliofilo appassionato? Speriamo di sì, perché il Necronomicon (il Libro delle parole dei morti) è un testo attraverso i cui riti in esso descritti è possibile mettere in contatto il nostro mondo con l’universo assurdo abitato da divinità malefiche che incombono sulla nostra realtà e non aspettano altro che la creazione di un “varco” per penetrarvi. Praticamente quasi tutte le storie lovecraftiane in cui si parla del Necronomicon descrivono i guai che combinano coloro i quali usano male questo grimorio, e i tentativi per porvi rimedio…

Del resto, chi lo compilò, Abdul Alhazred, detto l’ “arabo pazzo”, vissuto nello Yemen all’epoca dei Califfi Omiadi nell’VIII secolo d.C., finì proprio male: testimoni degni di fede affermano che venne afferrato in pieno giorno da un mostro invisibile e divorato orribilmente… Il titolo originale dell’opera è Al Azif, che secondo Lovecraft, “è il termine usato dagli arabi per designare gli strani suoni notturni (dovuti agli insetti) che supponevano essere l’ululato dei dèmoni”.

necroCIl testo originario in arabo è perduto, però, dice sempre lo scrittore di Providece, alcuni esemplari successivi (in latino, greco, spagnolo) sono custoditi gelosamente e ovviamente non consultabili presso varie istituzioni: il British Museum, la Biblioteca Nazionale di Parigi, la citate Università del Miskatonic e di Harward, quella di Buenos Aires. Una copia, superprotetta, starebbe anche in Vaticano, e magari papa Bergoglio nel suo empito democratico e populista ne potrebbe permettere la pubblica consultazione.. Altre sono presso privati, la cui sorte in genere non è raccomandabile.

Si potrebbe fare anche un piccolo sforzo per andarle a ricercare – si sa che certi bibliofili non si fermano di fronte a nulla – con l’avvertenza però che, come ricorda sempre Lovecraft, “il libro è posto rigidamente all’indice da tutte le religioni organizzate del mondo”. Il che, con il clima che si respira, non è proprio un buon viatico…

GIANFRANCO de TURRIS

5 ottobre 2015 Posted by | by G. de Turris, Fantascienza, Letteratura e Fumetti | , , , | Lascia un commento

Storie nelle rocce (reblog)

Nella sua versione in lingua inglese, l’articolo che segue non solo ha fatto la gioia dei geologi e dei planetologi, ma ha raccolto anche parecchio interesse tra il pubblico non specializzato. E’ stato scritto da Barbara Cohen e tradotto in italiano, con molta cura,  da Simonetta Ercoli e Donatella Levi. E’ stato pubblicato sul Tredicesimo Cavaliere proprio nei caldissimi giorni a ridosso del Ferragosto, col risultato di passare inosservato alla maggioranza dei nostri lettori. Lo riproponiamo qui ora come un gesto di scusa nei confronti dell’autore e dei traduttori e ci auguriamo che questa volta l’articolo riesca a raggiungere l’intero suo pubblico. (RF)

La storia di un pianeta è raccontata attraverso le sue rocce. Ogni roccia che si forma memorizza il suo ambiente: la dimensione dei granuli di un sedimento ci dicono da quanto lontano le particelle sono state trasportate; le tracce degli elementi nelle rocce ignee quale era la provenienza del magma; la composizione mineralogica di una roccia metamorfica quale intensità di pressione ha subito. Una roccia ci mostra se una zona era umida o secca; se i fluidi percolati attraverso di essa erano caldi o freddi e se la superficie era stata alterata da fratture da impatto o corrugamenti tettonici.

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foto 1. L’immagine è una sezione sottile di Dhofar 025, una meteorite lunare con vescicole da fusione da impatto. È stata scattata utilizzando gli elettroni retrodiffusi in microscopio a scansione elettronica. Qui i grigi medi e scuri indicano gli elementi più leggeri che costituiscono le rocce e i minerali tipici, mentre il bianco brillante sta ad indicare elementi più pesanti, come i metalli, e le aree nere sono fori o spazi vuoti. L’inserto è uno zoom su un clasto da fusione da impatto in questa meteorite – un pezzetto di una sola roccia formata da molti cristalli di minerali che si sono accresciuti, avendo fuso e ricristallizzato in un impatto sulla Luna.

Ogni roccia è una pagina nel libro della storia di un pianeta: la geocronologia è ciò che mette in ordine le pagine. Studia l’età le rocce e quando esse sono state modificate dagli eventi geologici. Noi conosciamo le condizioni in cui le rocce si formano grazie agli strumenti presenti sui nostri rover, quali Opportunity e Curiosity, e sugli orbiter come l’Orbiter Lunar Reconnaissance, Messenger e Cassini. La geocronologia è una misurazione aggiuntiva, che mette quelle condizioni in un contesto temporale: ci aiuta a ordinare cronologicamente gli eventi planetari e a collegarli ad altri verificatisi nel Sistema Solare.

Per esempio, che cosa stava accadendo sulla Terra quando su Marte il clima cambiava da caldo e umido al suo inospitale stato attuale? Quando hanno colpito Marte e la Luna gli impatti degli asteroidi? La geocronologia può dirci anche quanto a lungo è durato un evento. Per quanto tempo, ad esempio, i diversi pianeti hanno avuto un calore interno sufficiente a regolare i sistemi magmatici? E quanto tempo hanno avuto gli organismi per crescere in un ambiente marziano caldo e umido? Quanto a lungo le superfici sono state esposte all’ambiente dello spazio e forse trasformate da esso?

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foto 2. Questa sezione sottile ingrandita (QUE 94200) è una howardite, un esempio della regolite di Vesta. Proviene da un gruppo di meteoriti collegate a Vesta chiamate HED (howardite, eucrite, diogenite). Questo campione contiene piccoli pezzi di materiale fuso da impatto dei crateri di Vesta. Tuttavia, dal momento che non conosciamo esattamente in quale punto dell’asteroide si siano formati queste meteoriti, non possiamo ancora collegare l’età assoluta dei campioni all’elenco dei crateri sulla sua superficie.

 

 

Campioni in laboratorio

Io mi descrivo come una persona campione. Amo mettere le mani sulle rocce degli altri pianeti – campioni lunari dell’Apollo, meteoriti dalle diverse parti del mondo – aprirli e analizzarli per scoprire come e dove si sono formati. Ho iniziato ad imparare diverse tecniche di laboratorio mentre ero una studentessa specializzanda in geologia all’università statale di New York a Stoney Brook, uno dei primi posti in cui sono stati analizzati i campioni riportati dalla missione Apollo negli anni ‘70. Quando ero iscritta alla facoltà dell’Università dell’Arizona per approfondire le scienze planetarie, sviluppai un progetto usando la geocronologia per datare piccolissime vescicole di fusione da impatto, che si erano conservate nelle meteoriti lunari. Tutti i campioni riportati dalle missioni Apollo, che si sono formati in ampi impatti sulla Luna, hanno stranamente un’età simile, circa 4 miliardi di anni, che alcuni addetti ai lavori hanno iniziato a spiegare con l’incremento dei bombardamenti subiti dalla Luna in quel periodo: bombardamenti ai quali la Terra non poteva essere sfuggita. Quando stavo preparando la mia tesi, pensavo che avrei trovato di sicuro rocce da fusione da impatto più vecchie e avrei risolto il mistero. In realtà, non trovai nulla di più vecchio di 4 miliardi di anni in nessuno dei miei campioni. Era più difficile di quanto pensassi. 

rocce5foto 5. La stratigrafia si usa per comprendere l’età relativa delle rocce. Come mostrato dagli strati differentemente colorati del Gran Canyon, le rocce più giovani sono sovrapposte a quelle più antiche. Per conoscere la loro età assoluta è necessario analizzarle in laboratorio.

Quando non abbiamo campioni da scegliere in laboratorio, come possiamo stabilire quanto è vecchio un pianeta? Usiamo la datazione relativa. Gli elementi rocciosi più vecchi si trovano al di sotto di quelli più giovani: questo è il principio della stratigrafia, che si può vedere in luoghi come il Gran Canyon. Quando si hanno solo immagini orbitali, è più difficile vedere gli strati sovrapposti gli uni sugli altri, ma possiamo ricorrere a formazioni, quali le colate di lava e i crateri da impatto, per distinguere le aeree più recenti da quelle più antiche. I crateri da impatto, infatti, sono molto utili perché, fin dal pesante bombardamento di quattro miliardi di anni fa, sembrano formarsi ad un ritmo costante. Questo significa che il numero dei crateri sulla superficie può essere collegato alla sua età, come lasciare un pezzo di carta fuori appena comincia a piovere. Ma come possiamo dire quanti crateri corrispondono a quale età? Abbiamo bisogno di un punto di collegamento o di un’età assoluta. Sulla Luna gli astronauti dell’Apollo hanno raccolto campioni dalle zone vicine ai flussi di lava. Li abbiamo datati per dare loro un’età, poi abbiamo contato i crateri sulla superficie delle colate di lava e creato una scala temporale calibrata della Luna. Ora potremmo contare i crateri presenti sulle parti della Luna che non sono state esplorate, e utilizzare le loro relazioni, determinate con i campioni Apollo, per dedurre l’età della superficie. E ancora, possiamo usare questa calibratura per estendere il conteggio dei crateri ad altri pianeti come Marte per stimare l’età della superficie del pianeta, sebbene ci siano molte imprecisioni quando si usa questo metodo.

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foto 3. questa fila di crateri da impatto, fotografata da Dawn, è una delle più suggestive formazioni sul grande asteroide Vesta. Questi ed altri impatti su Vesta hanno fatto ribollire la sua superficie, creando la regolite.

 

 

 

 

 

Campionatura in situ

Nel 2004 facevo parte di una commissione che consigliò la NASA su cosa sarebbe importante fare per la scienza lunare quando l’uomo tornerà sulla Luna. “Il contesto scientifico per l’esplorazione della Luna” era il titolo del nostro report. La commissione concordò nel ritenere che l’antico bombardamento della Luna – il periodo in cui gli enormi bacini lunari, quali Imbrium e Orientale, si formarono – era un’enorme questione in sospeso con implicazioni importanti per l’intero Sistema Solare. Noi sostenevamo l’importanza della raccolta di più campioni presi da diversi luoghi sulla Luna, non solo dalle vicinanze delle aree visitate dalle missioni Apollo: abbiamo bisogno di campioni prelevati da molti siti. Per esempio, il ritorno di campioni da Marte è un obiettivo di vecchia data della comunità scientifica che si occupa dei pianeti. Le meteoriti cadute sulla Terra ci raccontano quando i loro corpi di origine si sono formati ed evoluti, ma dove sono i loro corpi di origine? È necessario ottenere anche campioni di molti asteroidi. E quando si sono formate la liscia superficie di Venere leggermente craterizzata e la crosta povera di ferro di Mercurio? Riportare campioni da tutti questi posti? Chiaramente, non è possibile. Ma ho imparato un altro approccio alla campionatura, quando Paul Lucey, il mio collega di studi di scienze lunari e membro della commissione, mi pose delle domande riguardo a una geocronologia in situ, vale a dire spostare il nostro laboratorio nello spazio, invece di portare indietro i campioni. Io ridicolizzai l’idea. Gli risposi che servono camere pulite per la preparazione e manipolazione dei campioni, al fine di garantire la sensibilità degli strumenti, che occupano una metà della stanza, per un calcolo dell’età preciso fino a milioni di anni in minuscoli granelli di campioni vecchi miliardi di anni.

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foto 4. la maggior parte degli scienziati concorda nel ritenere ALH84001 la più antica meteorite di Marte mai rinvenuta. Questo pezzo del pianeta rosso cristallizzò 4,51 miliardi di anni fa. Mezzo miliardo di anni dopo è stato colpito da un forte evento di impatto. Noi non sappiamo dove si fosse originata la meteorite su Marte così non possiamo collegare la sua età ad uno dei crateri marziani.

Paul scosse la testa con disappunto e disse: “Veramente? Non riesci a pensare ad una sola domanda tra tutte quelle della scienza planetaria che possa richiedere un’età leggermente meno precisa?” Mi soffermai a pensare. Bene, noi non conosciamo l’età degli altopiani marziani all’interno di circa un mezzo miliardo di anni, che è un raggio ampio. Se potessimo restringere quello spazio fino a 100 milioni di anni, sarebbe sufficiente per legarlo alla storia lunare. I giovani basalti lunari, i crateri chiave sulla Luna, Marte e Vesta, l’età magmatica di asteroidi differenziati potrebbero essere tutti studi orientati ad un primo approccio con un’idea come questa.

Tempo e decadimento

I nostri metodi di datazione assoluta si basano sul decadimento radioattivo. Ogni elemento della tavola periodica ha un determinato numero di protoni ed elettroni, che lo identificano: per esempio, il carbonio ha sei protoni e sei elettroni. Tutti gli atomi hanno anche neutroni nei loro nuclei e questi possono variare di numero. Atomi che hanno lo stesso numero di protoni ma differente numero di neutroni sono detti isotopi tra loro. Così un atomo di carbonio con sei neutroni è 12C e uno con sette neutroni è 13C. Molti elementi hanno isotopi radioattivi naturali, in essi gli atomi madre decadono con il tempo in atomi figli più stabili. Questo tempo di decadimento è ormai noto, così conoscendo l’atomo di partenza e quello di arrivo, è possibile definire per quanto tempo il sistema è stato in decadimento o per le rocce il tempo per la loro formazione. Io uso un sistema radioattivo basato sul potassio (K) che decade ad argon (Ar). Il potassio è un elemento presente naturalmente nella vita di ogni giorno, ad esempio si trova nelle banane e nel granito. In realtà un numero veramente esiguo di atomi di potassio ha un numero extra di neutroni ed è quindi radioattivo. Quando esso si trova in un minerale o in una roccia, fa parte del loro reticolo, quindi possiamo valutare il potassio di partenza e l’argon di arrivo per conoscere in quanto tempo quest’ultimo si è formato, ovvero l’età della roccia. Con un’emi-vita di 1,29 miliardi di anni il sistema potassio-argon è un valido metodo per l’analisi delle rocce del sistema solare ed è stato utilizzato sia per le rocce lunari e le meteoriti che per le rocce terrestri.

 

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foto 6. il Mare della Serenità è uno dei mari lunari, vaste pianure di lava sulla superficie della Luna. Questa una ripresa della Stazione 6, dove gli astronauti dell’Apollo 17 hanno esplorato un gruppo di massi e regolite, fatta dalla camera del Lunar Reconnaissance Orbiter (LROC). Cinque ampi frammenti di roccia giacciono alla base di un lungo cordolo di massi. Provengono tutti da un singolo masso che è rotolato giù dal rilievo e si è frammentato in più parti.

 

 

L’esperimento laser potassio-argon

Il mio consulente di laurea è stato Tim Swindle, il quale provò per primo a sviluppare un sistema potassio-argon da utilizzare in un volo strumentale. Tim chiamò il suo metodo Argon Geochronology Experiment (AGE) e lo destinò a volare su una missione verso Marte. AGE utilizzava un laser (come il Chemcam su Curiosity) per misurare il potassio in piccoli campioni, poi lo fondeva in forno a 1.500 °C (2.730 Fahreneit) per liberare l’argon intrappolato. Io ero una collaboratrice nei programmi di Tim. In una conversazione con lui ad un convegno nel 2008 presso l’Ames Research Center della NASA, riflettei che l’alta energia del laser poteva rompere il reticolo cristallino e produrre argon libero senza il bisogno di un forno. Chiesi a Tim se gli sarebbe interessato provare questo metodo ma, spiegandomi che egli era al termine della concessione del suo progetto e stava prendendo altre responsabilità, suggerì che io tentassi da sola. Ci scambiammo i ruoli e io iniziai a sviluppare il Potassio Laser Experiment (KArLE) con Tim come collaboratore. Dato che sono una scienziata e non una tecnologa, ho progettato KArLE seguendo il criterio di adoperare strumenti che già esistono per le missioni sulle superfici planetarie, utilizzandoli per condurre un nuovo tipo di rilevazione: l’età delle rocce. KArLE usa uno strumento come il Chemcam sia per ablare un campione di roccia sia per misurare il potassio nel plasma, utilizzando la spettroscopia di ripartizione indotta da laser (LIBS). Come la roccia si rompe, noi misuriamo l’argon liberato con la spettrometria di massa, allo stesso modo in cui viene fatto in alcune missioni quali Curiosity, LADEE e Cassini. Abbiamo avuto circa tre anni di tempo per sviluppare una versione KArLE da laboratorio e testarla in analoghi campioni planetari con risultati incoraggianti, dal momento che abbiamo ottenuto datazioni accurate con circa solo un 10 – 15 percento di imprecisione: un livello di precisione ottimo per rispondere a molte domande sollevate dalla scienza planetaria. Possiamo fare buone misurazioni di potassio e argon, ma ogni datazione è l’interpretazione di un evento geologico, così ogni componente KArLE contribuisce a rendere la misurazione contestuale per interpretare l’età del campione. Per esempio la tessitura della superficie di una roccia è caratterizzata con un dispositivo elettronico (imager), LIBS produce un’analisi completa degli elementi della roccia e tutti i gas liberati possono essere misurati. Pensavo di essere stata piuttosto in gamba a riconvertire questi componenti e il loro uso verso la geocronologia. Ma una buona idea a volte sta solo aspettando di essere pensata e così, del tutto indipendentemente, anche altri due gruppi, in Germania e in Francia, stavano sviluppando questa tecnica quasi contemporaneamente a noi. Fortunatamente negli ultimi anni siamo arrivati a considerarci come persone che collaborano fra loro, lavorando tutte verso un obiettivo comune.

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foto 7. pezzi di colata di lava tratti dal Mare della Serenità sono stati riportati sulla Terra e datati nei laboratori, dove una datazione assoluta per la formazione lavica è stata valutata tra 3,7 e 3,8 miliardi di anni. Questo è un pezzo del basalto riportato dall’Apollo 17 che ha fornito questa età, collegandola al conteggio dei crateri dalla foto 6.

Opportunità per la datazione in situ

La capacità degli strumenti di volo di condurre la geocronologia in situ è ritenuta dalle pubblicazioni della NASA Planetary Science Decadal Survey e Technology Roadmap come uno sviluppo necessario per soddisfare i bisogni della comunità. Beagle 2, il lander esobiologico per l’orbiter Mars Express dell’ESA, è la sola missione lanciata con l’esplicito obiettivo di effettuare in situ la datazione K-Ar delle rocce. Sfortunatamente il lander Beagle 2 ha mancato la comunicazione al suo primo atteso contatto radio e questo obiettivo scientifico non è stato così soddisfatto. La prima datazione K-Ar in situ su Marte è stata pubblicata di recente, utilizzando misurazioni SAM e APXS su rocce Cumberland mudstone. L’età di 4,21 miliardi di anni (+-0,35) per Cumberland suggerisce che essa è di età molto antica e valida l’ipotesi dell’uso del sistema potassio-argon per la datazione sugli altri pianeti, anche se il metodo Curiosity è molto impreciso. Per ottenere maggior precisione e datazioni più significative, molti gruppi stanno perfezionando strumenti destinati alla datazione in situ. L’ultima opportunità per uno strumento di tale tipo è avvenuta lo scorso anno, quando il carico di Mars 2020 è stato completato. Quattro strumenti potassio-argon per la datazione in situ e altri schemi di datazione radioattiva sono stati proposti, tra cui KArLE. Benché nessuno abbia vinto un posto sul rover Mars 2020, la datazione in situ potrebbe presto divenire una realtà.

Ci sono molte domande relative alla scienza planetaria che ancora richiedono la determinazione di misurazioni di laboratorio e necessitano di campioni da riportare indietro sulla Terra. La datazione in situ non sostituisce il lavoro sui campioni riportati, ma piuttosto estende la nostra capacità di usarla come uno strumento, insieme ai nostri strumenti di imaging. Vorrei che diventasse uno strumento comune da poter utilizzare sulla Luna, su Marte, sugli asteroidi e oltre. Non sarebbe romantico avere un appuntamento in tutti quei posti?

traduzione: SIMONETTA ERCOLI

editing: DONATELLA LEVI

Titolo originale: “Stories in Stone” di Barbara Cohen , pubblicato su The Planetary Report vol35 #1-2015

2 ottobre 2015 Posted by | Planetologia, Scienze dello Spazio | , , | Lascia un commento