Il Tredicesimo Cavaliere

Scienze dello Spazio e altre storie

WFIRST – una visione più ampia

WFIRST1La NASA sta lavorando alacremente alla preparazione del lancio nel 2018 del telescopio spaziale James Webb (JWST), successore dell’onorato telescopio spaziale Hubble (HST), che ha celebrato il suo 25° compleanno in aprile. Guardando oltre a JWST, la NASA ha indicato in WFIRST (Wide Field Infrared Survey Telescope) il suo prossimo e ambizioso telescopio spaziale di punta.

Se nel 2016 verrà approvato, WFIRST potrà essere pronto per il lancio nel 2024, in una missione per studiare l’energia oscura, eseguire ampie osservazioni nell’infrarosso della galassia e del cielo extragalattico, rivoluzionare la nostra conoscenza della demografia dei sistemi planetari e fare un grande passo in avanti nella tecnologia necessaria alla scoperta e allo studio di un altro “pianeta azzurro” intorno ad una stella vicina.

L’origine di WFIRST

WFIRST è nato nel corso dell’indagine che l’Osservatorio Decennale di Astronomia ed Astrofisica del Consiglio Nazionale per la Ricerca ha svolto nel 2010, un evento che ha luogo ogni dieci anni in cui la comunità astrofisica statunitense studia i concept di missione e le questioni scientifiche fondamentali, per poi emanare raccomandazioni alle diverse agenzie governative che supportano la ricerca astrofisica (la NASA, la National Science Foundation e il Dipartimento dell’Energia).

Tre delle più affascinanti proposte presentate per la valutazione avevano obiettivi scientifici molto diversi ma analogie nelle implementazioni del loro hardware, quali uno specchio primario di circa 1,3 metri di diametro e una grande camera ad infrarosso. Il Decadal Survey concluse che gli obiettivi scientifici delle tre proposte potevano essere realizzati da un unico telescopio spaziale. Fu dunque raccomandato che, per quanto riguardava i grandi progetti astronomici spaziali (superiori a 1 miliardo di dollari), la NASA perseguisse prioritariamente questa missione.

Alla fine del 2010 l’agenzia aveva dunque riunito un gruppo di scienziati e ingegneri allo scopo di iniziare la programmazione di WFIRST. Mentre il team iniziava a elaborare il progetto dettagliato del telescopio, in un’altra sezione dell’Agenzia si stavano svolgendo negoziati che promettevano di cambiare profondamente la configurazione di WFIRST. Infatti, agli inizi del 2011 il National Reconnaissance Office (NRO), un’agenzia di ricerca statunitense, donò alla NASA due telescopi spaziali inutilizzati che erano stati costruiti una decina di anni prima, ma che non erano mai stati messi in orbita. Questi telescopi avanzati avevano specchi di 2,4 metri di diametro, la stessa dimensione dell’HST e quasi il doppio del diametro programmato inizialmente per WFIRST. La NASA accettò i telescopi ma non rivelò la loro esistenza al pubblico (nemmeno al team di WFIRST!) fino al giugno 2012. Quest’elevata tecnologia incrementò enormemente le capacità di WFIRST, permettendo un’area di raccolta della luce quattro volte più ampia di quella programmata e una capacità di risoluzione doppia. Il primo telescopio donato dall’NRO fu chiamato AFTA (Astrophysics Focused Telescope Assat) e l’incarnazione di WFIRST che utilizza questo gradito regalo viene spesso chiamato WFIRST-AFTA. Il secondo telescopio sarà messo da parte fino a quando la NASA non troverà un’altra applicazione idonea e il finanziamento necessario per utilizzarlo al meglio.

wfirstesopianetiUN TELESCOPIO AVANZATO, QUATTRO OBIETTIVI

Considerati i 25 anni di servizio dell’HST, ci si potrebbe chiedere quale sia il vantaggio di un altro telescopio spaziale delle stesse dimensioni. La risposta sta nell’incredibile campo visivo di WFIRST, ovvero quanta parte di cielo può vedere in una sola volta. Per le lunghezze d’onda vicine all’infrarosso, che sono scientificamente interessanti ma relativamente difficili da osservare utilizzando telescopi terrestri, HST ha una camera da 1 megapixel, ma WFIRST avrà uno schieramento di sensori che lo porteranno ad un colossale 288 megapixel! Nei suoi 25 anni HST ha osservato alcune decine di gradi quadrati di cielo (sugli oltre 40.000 gradi quadrati di cielo); WFIRST, invece, sarà in grado di scrutare migliaia di gradi quadrati all’anno. Sebbene JWST, successore dell’HST, avrà uno specchio molto più grande (6,5 metri), il suo campo visivo rimarrà simile a quello dell’HST, mentre quello, davvero stupefacente, di WFIRST lo porterà ad osservare ampie aree di cielo, un requisito indispensabile per tre dei suoi quattro obiettivi fondamentali.

Primo obiettivo : comprendere l’energia oscura

Nel 1998 due squadre di astronomi scoprirono contemporaneamente che l’espansione dell’universo sta accelerando, invece che rallentare come si pensava in precedenza. La scoperta di questa espansione accelerata fece loro guadagnare il Premio Nobel per la fisica 2011 a pari merito. “Energia oscura” è il nome onnicomprensivo che gli scienziati danno a qualunque forza o proprietà dello spazio-tempo stia causando l’accelerazione dell’espansione. Mentre conosciamo molto poco riguardo a questa misteriosa energia oscura, gli astronomi ora ritengono che possa essere la componente prevalente del rapporto totale massa/energia dell’universo.

WFIRST userà tre tecniche per studiare gli effetti dell’energia oscura. La prima consiste nell’esaminare le esplosioni stellari, o supernovae, che oscurano per breve tempo la luce dei circa 100 miliardi di altre stelle nelle loro galassie ospiti. Studiando queste esplosioni, possiamo vedere attraverso grandi distanze: in pratica, scrutando indietro per due terzi del percorso verso il Big Bang, possiamo vedere come l’universo si sia espanso sotto l’influenza dell’energia oscura. WFIRST esaminerà anche le posizioni delle galassie nello spazio, dal momento che l’energia oscura lascia una firma rivelatrice sul raggruppamento spaziale delle galassie. Infine, WFIRST utilizzerà l’effetto lente gravitazionale debole, in cui la presenza della materia curva il percorso della luce (un effetto molto simile al microlensing). La lente debole si riferisce alle piccole distorsioni nelle forme di galassie lontane causate dalla massa presente tra noi e quelle galassie, dandoci informazioni sulla massa stessa e sugli effetti che ha su di essa l’energia oscura.

wfirstgalassieSecondo obiettivo: osservazioni del cielo nell’infrarosso

Le prime notizie di stampa riguardanti WFIRST si sono focalizzate soprattutto sull’energia oscura che, se pur entusiasmante, è solo una delle aree in cui si prevede che WFIRST avrà un forte impatto. WFIRST terrà da parte un anno e mezzo di tempo a disposizione di osservatori ospiti. Astronomi di tutto il globo, in competizione fra loro, potranno richiedere del tempo su WFIRST per utilizzare le sue capacità uniche di osservare il cielo nell’infrarosso. Gli esperti valuteranno le richieste e assegneranno il tempo per eseguire le osservazioni più interessanti dal punto di vista scientifico. Favorendo l’implementazione delle idee migliori, WFIRST potrà offrire dei grandi contributi in diverse aree dell’astronomia.

Terzo obiettivo: ricerca di pianeti extra-solari

Il terzo e il quarto aspetto di WFIRST si riferiscono allo studio dei pianeti extra-solari (più brevemente esopianeti). L’indagine di microlensing operato da WFIRST potrà rilevare oltre 2.000 pianeti, inclusi quelli analoghi ai pianeti del nostro sistema solare eccetto Mercurio, che è troppo vicino alla sua stella. WFIRST è complementare alla missione Kepler della NASA, destinata alla scoperta dei pianeti, in cui Kepler si è distinta nel trovare i pianeti caldi (quelli vicini alle loro stelle madri) mentre WFIRST eccelle nel trovare i pianeti freddi (quelli più lontani dalle loro stelle) e persino i cosidetti pianeti nomadi, che non orbitano intorno a nessuna stella. WFIRST completerà pertanto la rilevazione demografica dei pianeti nella nostra galassia iniziata da Kepler e ci dirà quanto siano comuni i diversi pianeti in tutti i loro gradi di dimensioni, temperature e distanze dalle stelle ospiti. Questo favorisce l’obiettivo a lungo termine della NASA di comprendere la frequenza dei pianeti nella zona abitabile, la regione intorno a una stella in cui è possibile la presenza di acqua liquida. Gli scienziati pensano che un pianeta delle dimensioni della Terra nella zona abitabile sia la nostra migliore scommessa per trovare la vita al di fuori del nostro sistema solare.

coronografoQuarto obiettivo: osservare gli esopianeti usando il coronografo

Il microlensing, che ci permette di individuare gli esopianeti ma non di vederli direttamente, era il livello di competenza che ci si aspettava da WFIRST per la scoperta degli esopianeti, secondo quanto previsto dalla Decadal Survey nel 2010. Tutto questo è emozionante, ma gli scienziati vorrebbero anche poter essere in grado di avere immagini dirette degli esopianeti per studiarli con maggiore dettaglio. Con la donazione dell’hardware di AFTA, questo è diventato possibile. Il telescopio AFTA, più grande, ha permesso alla NASA di aggiungere a WFIRST un coronografo, per consentire una rappresentazione diretta degli esopianeti più prossimi; fatto tecnicamente impegnativo, perché essi sono molto vicini alle stelle (secondo la scala astronomica) e molto meno luminosi della loro stella. Quindi un coronografo deve bloccare quanta più luce possibile dalla stella centrale, così da permettere agli altri strumenti di catturare quella, relativamente debole, proveniente dal pianeta. Il Decadal Survey ha messo lo sviluppo di una tale tecnologia in cima alle sue priorità per gli investimenti cosiddetti di “media entità” (centinaia di milioni di dollari) per l’astronomia spaziale. L’aggiunta di un coronografo a WFIRST permetterà che questa raccomandazione venga rispettata, non solo sviluppando la tecnologia in laboratorio ma anche facendola volare nello spazio. L’indice di contrasto previsto del coronografo WFIRST è un migliaio di volte superiore a qualsiasi cosa sia già stata realizzata – e negli ultimi due anni sono stati fatti dei grandi progressi nei test di laboratorio verso questo obiettivo. Se ci si riuscirà, grazie a WFIRST saremo in grado di rilevare direttamente pianeti della dimensione di Nettuno o più grandi.

RIPRENDERE LE IMMAGINI DI UN ALTRO PIANETA AZZURRO

Il coronografo di WFIRST è solo il punto di partenza verso una missione ancora più entusiasmante nel futuro. Se l’uso di un coronografo su WFIRST per riprendere immagini di esopianeti avrà successo, apriremo la strada ad una missione successiva con un telescopio e un coronografo più potenti. Una tale missione potrebbe essere in grado di riprendere immagini (e spettri) di pianeti delle dimensioni della Terra nella zona abitabile di stelle vicine. Questo ci permetterebbe di cercare la presenza di acqua e ossigeno – possibili segni di vita – nelle atmosfere di questi pianeti. WFIRST quindi rappresenterà un passo avanti verso la scoperta di un altro “pianeta azzurro” e la comprensione della presenza della vita nell’universo.

Traduzione di SIMONETTA ERCOLI

editing di DONATELLA LEVI

Titolo originale: ” A Wider View” by Jason Rhodes

JASON RHODES è un “cosmologo dell’osservazione” in forza al JPL della NASA, e sta lavorando per comprendere i misteri della materia e dell’energia oscure usando telescopi come WFIRST, oppure come Euclide dell’ESA. Quando non è impegnato a progettare missioni spaziali, dedica il suo tempo alla moglie Alina, sua collega cosmologa al JPL.

L’articolo è stato pubblicato per la prima volta da The Planetary Report 2015 v35, n.02

WFIRST

wfirst immagine

Galleria Immagini

wfirstmicrolensing1.

Come risultato dell’effetto di microlensing, la luminosità di una stella lontana misurata da un telescopio aumenta e poi diminuisce con il tempo (come si vede dalla curva rossa in alto), quando una stella e/o un pianeta ci passa davanti.

Che cosa è il microlensing gravitazionale?
Il
microlensing approfitta del fatto che la materia piega lo spazio e curva il percorso della luce, permettendo a corpi massivi di agire come lenti di ingrandimento. Riprendendo le immagini di molte migliaia di stelle nel nucleo centrale densamente popolato della galassia e misurandone la luminosità, possiamo aspettarci una sovrapposizione di una stella che funge da lente in primo piano su una stella sorgente sullo sfondo. La massa della stella lente ingrandisce l’immagine della stella sorgente passandovi davanti, proprio come farebbe una lente di vetro. Quando questo avviene, noi rileviamo un’apparente maggiore luminosità della stella. Contemporaneamente appaiono due immagini della stella sullo sfondo, troppo vicine tra loro perché noi le si possa distinguere (anche con WFIRST); comunque queste immagini non sono fondamentali per il processo di rilevamento. In qualche caso, la stella in primo piano avrà un pianeta e quel pianeta agirà brevemente come un’altra lente per la stella sorgente, causando una piccola, veloce anomalia nel lento cambiamento della “curva della luce”, o misura della luce totale raccolta dalla stella. Questa piccola anomalia indica la presenza del pianeta, e la relativa forma dell’anomalia, insieme con la curva totale della luce di microlensing, può darci informazioni sul rapporto tra le masse delle stelle ed il pianeta ed anche sulla distanza tra la stella lente ed il pianeta.

2.wfirst-kepler

Mentre la soda spaziale Kepler è molto più sensibile nel rintracciare i pianeti vicini alle loro stelle madri, WFIRST sarebbe molto più sensibile verso quelli lontani, come mostrato in questo diagramma della distanza dalla stella madre rispetto alla massa degli esopianeti. Le scoperte di pianeti stimate per Kepler sono mostrate come punti arancioni; i punti verdi sono le simulazioni delle future scoperte di WFIRST. Quest’ultimo sarà anche in grado di trovare pianeti non legati a stelle madri. I punti grigio scuro rappresentano esopianeti non rilevati da Kepler. Solo per gioco sono stati aggiunti la Terra e altri pianeti.

Screenshot 2015-09-27 10.303.

Questa simulazione di un’immagine ottenuta con un coronografo illustra come la schermatura della luce brillante di una stella permette l’osservazione della luce relativamente debole dei suoi due pianeti. La donazione dell’Astrophysics Focused Telescope Asset (AFTA) permette di aggiungere un coronografo a WFIRST, permettendo agli scienziati di andare alla ricerca di esopianeti nello spazio.

coronografo14.

un coronografo non è il solo modo per bloccare la luce di una stella in modo da consentire un’immagine diretta di un esopianeta. La NASA sta studiando dei concept per un’opzione esterna denominata starshade (ombrello stellare). Questa navicella a volo libero potrebbe essere manovrata posizionandola precisamente in modo da lasciare che la luce di un pianeta oltrepassi il suo bordo esterno, mentre la parte più interna blocca la luce della stella. I “petali” dello starshade creano un bordo più tenue che diminuirebbe la curvatura della luce. Per vedere un’animazione dell’apertura dello starshade, (qui in immagine), e anche un video del test di apertura del prototipo presso lo JPL, andare a planet.ly/starshade

28 settembre 2015 Posted by | Astrofisica, Astronautica, News, Planetologia, Scienze dello Spazio | , , , , , , , , | Lascia un commento

Astrobiologia: l’equazione di Seager, le “firme biologiche” e le nane rosse

seager_saraPiuttosto che cercare segnali ottici o radio che indichino una cultura extraterrestre, alcuni scienziati si sono chiesti se una civiltà abbastanza avanzata potrebbe aver lasciato prove della propria esistenza sotto forma di enormi progetti ingegneristici, scavi minerari su asteroidi o sventrando interi pianeti per costruire sfere di Dyson. O forse le stelle chiamate “Blue Straggler” sono la prova di una cultura che sta armeggiando con il proprio sole.  (nella foto:  Sara   Seager).

 Mi piace pensare che un giorno, grazie alla rapida crescita del nostro database astronomico, potremmo trovare la prova non di culture ancora esistenti, ma di culture da lungo tempo estinte, le cui opere di mega ingegneria potrebbero porsi quale prova enigmatica dell’esistenza di esseri intelligenti periti prima della nascita del nostro Sole. Dopo tutto non sappiamo quanto possano vivere le civiltà tecnologiche e non c’è ragione di pensare che siano immortali.

 Tutto ciò si riflette su questo articolo perché uno degli elementi chiave dell’equazione di Drake è il termine L, il quale indica la durata della vita di una civiltà tecnologica. È un aspetto di cui non abbiamo semplicemente alcuna conoscenza, salvo dire che, fino ad oggi, la nostra cultura si è organizzata per sopravvivere con la tecnologia. A un certo punto le civiltà inevitabilmente distruggono se stesse a causa del cattivo uso dei loro stessi strumenti? È questo il “Grande Filtro” che una cultura deve attraversare per raggiungere la maturità?

Sarà il tema di uno dei prossimi articoli di questo ciclo dedicato al nuovo SETI. Si tratta di un lavoro di Paul Gilster di eccezionale qualità, che speriamo di liberare dalle grinfie delle leggi sul copyright. Nel frattempo, riportiamo nell’articolo seguente le nuove, suggestive proposte avanzate da Sara Seager e Lee Grenfeel per l’utilizzo di procedure e strumenti atti a riconoscere la semplice presenza di vita analizzando l’atmosfera di un pianeta.

M-class red dwarfUna alternativa a Drake

Possiamo riflettere su questi argomenti mentre le diverse forme di SETI proseguono il loro corso, ma dovremmo ricordare che la caccia alle tracce biologiche, non necessariamente tecnologiche, è continua. Al MIT, Sara Seager offre un nuovo approccio all’equazione di Drake scegliendo non di cercare la vita intelligente, bensì la presenza della vita stessa

È una decisione brillante perché stiamo entrando in un’epoca in cui saremo in grado di esaminare l’atmosfera di pianeti potenzialmente abitabili orbitanti intorno alle piccole stelle nane di classe M. Non solo è in orbita il telescopio spaziale TESS (Transiting Exoplanets Survey Statellite) ma noi avremo (non prima del 2018 ndt) anche il JWST (James Webb Space Telescope) e, entro l’anno, l’europeo GAIA. Se TESS o GAIA possono trovare pianeti candidati attorno alle stelle, JWST può studiarli per scoprire se le firme biologiche dei gas che segnalano la presenza di vita sono presenti.

 L’equazione di Seager rappresenta un taglio netto rispetto a quella di Drake. La trascrivo direttamente da questa intervista su Astrobiology Magazine, alla quale può far riferimento chi vuole approfondire:

 N = N* FQ FHZ FO FL FS

 dove:

 N = numero dei pianeti con riconoscibili segni di vita

N* = il numero delle stelle osservate

FQ = la frazione di stelle in stato di quiete

FHZ = la frazione di stelle con pianeti rocciosi nella zona di abitabilità

FO = la frazione di quei pianeti che può essere osservata

FL = la frazione di quei pianeti dove risiede la vita

FS = la frazione di quei pianeti in cui la vita produce una firma riconoscibile in un gas

Se la confrontiamo con il famoso approccio di Drake risulta subito evidente ciò che è rimasto fuori. Ecco la formula originale :

N = R* fp ne fl fi fc L

 dove

 N = il numero delle civiltà in grado di comunicare

R* = il tasso di formazione delle stelle adatte (stelle tipo il nostro Sole)

fp = la frazione di quelle stelle che possiede pianeti (esistono prove che i sistemi planetari siano comuni tra le stelle tipo Sole)

ne = il numero dei mondi tipo Terra per ciascun sistema planetario

fl = la frazione di questi pianeti tipo Terra dove la vita si è effettivamente sviluppata.

fi = la frazione dei pianeti dove si è sviluppata anche l’intelligenza.

Fc = la frazione dei pianeti in grado di comunicare utilizzando onde elettromagnetiche

L = la durata delle civiltà in grado di comunicare.

Si vede facilmente che l’approccio di Seager mette a fuoco solamente i gas in grado di  concorrere a produrre una firma biologica, che noi siamo in grado di studiare con successo perché l’atmosfera di un pianeta che sta transitando davanti alla sua stella assorbirà una parte della luce stellare. Stiamo dunque cercando fotoni di luce stellare che brillano attraverso l’atmosfera di un pianeta, e stiamo cercando stelle in un tale stato di quiete che la loro attività non riesce a mascherare i dati che abbiamo bisogno di raccogliere dai pianeti in transito.

Alcuni aspetti dell’equazione Seager possono essere calcolati: la frazione delle stelle nane di classe M con pianeti nella zona abitabile, basata sulle statistiche della sonda Kepler, è grosso modo pari allo 0,15 per le stelle in stato di quiete. Altri termini sono, come la stessa Seager ammette, soltanto ipotesi, incluse la frazione in cui c’è presenza di vita e la frazione che produce una firma riconoscibile in un gas.

Ci sarebbe molto da dire sulle firme biologiche stesse. Sulla Terra, ossigeno, ozono, metano, e anidride carbonica sono prodotti biologicamente, ma potrebbero crearsi per via naturale anche nell’atmosfera di un pianeta privo di vita. Cosi non è tanto un singolo gas ma una combinazione di più gas che ci può dare il quadro completo. Una firma biologica sarebbe la presenza simultanea di questi gas in quantità tali da indicarci che la vita deve essere una componente di ciò che continua a produrli. L’ultima variabile di Seager – la frazione di quei pianeti in cui la vita produce una firma riconoscibile in un gas – è ingegnosa perché ci porta direttamente alle questioni fondamentali che dovranno essere risolte se vogliamo allargare la caccia alla vita. Dice Seager :

 Ho elaborato con cura l’ultimo termine della mia equazione in modo da potervi aggiungere più informazioni. La vita produce davvero un firma rilevabile? Esistono degli effetti sistematici che impediscono di rilevare gas riconducibili a firme biologiche su qualche pianeta? Forse non li abbiamo trovati per motivi tecnici? In effetti non sappiamo proprio quanti pianeti ospitano una vita che produce gas recanti firme biologiche intercettabili da noi.

 Niente di tutto questo vuole sminuire l’attuale sforzo di quelli del SETI che invece procedono con le loro ricerche e la formula di Drake saldamente in testa. Ma la nuova equazione di Seager è veramente una aggiunta preziosa nella dotazione dello scopritore di pianeti. Dopo tutto noi non abbiamo idea di se e quando il SETI riuscirà a raccogliere prove dell’esistenza di una civiltà extraterrestre. Ma nella visione di Seager c’è almeno la lontana possibilità che riusciremo a scoprire una firma biologica entro i prossimi dieci anni. Dedurre la presenza di qualche traccia di vita su un mondo distante non sarà come avere la password per consultare l’Enciclopedia Galattica, ma se non altro ci permetterà di affermare che la vita non è confinata solo sul nostro mondo.

 È sorprendente pensare che la prima scoperta di vita extraterrestre possa arrivarci come luce riflessa da un esopianeta lontano piuttosto che da un corpo celeste del Sistema Solare! Eppure pensiamoci: Seager sta parlando della possibilità di avvistare una firma biologica entro dieci anni da oggi. Quanto è probabile che si riesca ad avere così presto prove inconfutabili di vita su Marte, Europa o un qualsiasi altro corpo celeste vicino?

 L’interesse di Seager si concentra sulla scoperta di ogni tipo di vita, non solo di culture tecnologiche capaci di comunicare, e il suo lavoro è rivolto in particolare alle stelle nane di classe M, il tipo di stelle sulle quali è più probabile riuscire a svolgere le ricerche necessarie in tempi brevi. I marcatori biologici che stiamo cercando verranno presumibilmente esaminati per la prima volta dal JWST, che analizzerà la luce proveniente da una stella rossa nana nel momento il cui il suo disco viene attraversato da uno dei pianeti del suo sistema. I cambi nell’emissione della luce ci diranno molto su quali tipi di gas si trovano nell’atmosfera del pianeta.

 Al congresso Europeo per le Scienze Planetarie all’University College di Londra anche Lee Grenfell (DLR Institute of Planetary Research, Berlino) ha parlato di marcatori biologici. Ossigeno, ozono, metano, protossido di azoto, quando rilevati simultaneamente, potrebbero corrispondere a segni di vita, e l’interesse di Grenfell sta in come rilevarli. Come Seager, anche lui è interessato alle stelle nane di classe M. La sua squadra ha sviluppato modelli computerizzati per simulare la differente disponibilità di gas biomarcatori e per studiare come potrebbero influenzare la luce stellare che filtra attraverso l’atmosfera del pianeta. La scelta delle stelle nane di classe M è stata ovvia.

Dice Grenfell:

 “nelle nostre simulazioni, abbiamo costruito il modello di un esopianeta simile alla Terra e lo abbiamo piazzato in varie orbite intorno alle stelle calcolando come i segnali corrispondenti ai marcatori biologici rispondevano in differenti condizioni. Ci siamo concentrati sulle stelle nane rosse che sono più piccole e più deboli del nostro sole in quanto ci aspettiamo che questi segnali provenienti dai pianeti che orbitano attorno a tali stelle si dimostrino più facili da rilevare”.

 Grenfell e suoi colleghi hanno chiarito l’effetto della radiazione ultravioletta proveniente dalla stella sui gas che creano la marcatura biologica. Una debole radiazione ultravioletta porta a una riduzione della produzione di ozono, rendendo la sua rilevazione problematica perfino con gli strumenti di nuova generazione come il EELT (European Extremly Large Telescope). Troppi ultravioletti sono pure un problema perché causano un aumento di calore nella media atmosfera che distrugge la traccia biologica. Il rilevamento di ozono in questi modelli si basa su un valore UV intermedio.

 Siamo ai primordi nello studio dei marcatori biologici, ma vale la pena di menzionare che abbiamo già usato la missione EPOXI (l’estensione della missione Deep Impact) per studiare la Terra da una distanza di milioni di chilometri e la sonda Galileo che ha cercato le tracce biologiche del nostro pianeta quando passò vicino alla Terra nel 1990 per sfruttare la fionda gravitazionale e dirigersi verso Giove. (Pale Blue Dot, il libro di Carl Sagan del 1994, offre una splendida descrizione di come sia complicato ricavare tali informazioni, e di cosa ci possano rivelare). Studi come questi sono come “esercizi di riscaldamento” indispensabili in vista delle future ricerche intorno alle stelle lontane.

 Si potrebbe dire che in questi casi e nel lavoro di Grenfell il limite consiste nel modello di esopianeta, che si basa esplicitamente sulla Terra, ma noi cominciamo con la Terra perché ovviamente è il pianeta che conosciamo meglio e il più adatto a essere studiato esaustivamente con questi metodi. Imparare a cercare i marcatori biologici sul nostro pianeta ci aiuterà a sviluppare gli strumenti da applicare ad ambienti più esotici come quello di un sistema planetario intorno a un nana rossa di classe M. Dobbiamo anche distinguere tra segnali che hanno origine biologica e quelli creati da processi naturali.

 Sara Seager pensa che ci sia almeno una piccola possibilità che riusciremo a fare un tale rilevamento entro i prossimi dieci anni usando il JWST, ma anche se si tratta di una lettura ottimistica, gli strumenti in grado di realizzare il rilevamento di marcatori biologici entro alcuni decenni sono ormai quasi pronti. Se questo dovesse succedere, quello che molti di noi presumono – che la vita si formi senza difficoltà nell’universo – comincerà a sembrare più verosimile. La questione ben più vasta di una vita intelligente in grado di costruire una cultura tecnologica richiederà probabilmente molto più tempo, a meno che SETI non sia di colpo in grado di rispondere a entrambe le questioni, con l’improvvisa ricezione di un singolo segnale che mandi in frantumi ogni paradigma.

Traduzione di ROBERTO FLAIBANI

Editing di DONATELLA LEVI

Titoli Originali: “Astrobiology, Enter the Seager Equation” e ” Finding biomarkers on M-dwarf planets”,

ambedue scritti da Paul Gilster e pubblicati su Centauri Dreams in data 11 e 12/09/2013

12 novembre 2013 Posted by | Astrofisica, Planetologia, Radioastronomia, Scienze dello Spazio, SETI | , , , , , , | 1 commento

Abitabile o colonizzabile?

exoplanets1

Le sonde dedicate alla ricerca degli esopianeti continuano a fornire risultati interessanti. Sappiamo ora che la maggior parte delle stelle possiede sistemi planetari, e che una sorprendente percentuale di questi sarà costituita da pianeti delle dimensioni della Terra, situati nella loro zona di abitabilità, cioè la regione in cui non fa né troppo caldo né troppo freddo, e la vita come noi la conosciamo può svilupparsi. Gli astronomi sono completamente affascinati dal concetto di zona di abitabilità e da quello che potrebbero trovare. Abbiamo l’opportunità, nell’arco della nostra esistenza, di scoprire se la vita esiste fuori dal nostro sistema solare e forse quanto essa è comune. Abbiamo anche un’altra opportunità , meno frequentata dagli astronomi ma comune tra gli scrittori di fantascienza. Per la prima volta nella storia, possiamo essere in grado di identificare mondi dove potremmo trasferirci e vivere. Nel momento in cui decidiamo di riflettere sulla seconda possibilità, è importante tenere bene in mente che abitabile e colonizzabile non sono sinonimi.

Nessuno sembra accorgersene, ma non è possibile trovare alcun termine se non “abitabilità “ per descrivere gli esopianeti che stiamo trovando. Che un pianeta sia abitabile, in accordo con la definizione corrente del termine, non ha niente a che vedere con la possibilità che degli esseri umani si stabiliscano in quel luogo. Cosi il termine si applica a luoghi che sono di importanza vitale per la scienza ma non si applica necessariamente a luoghi dove noi vorremmo effettivamente andare. In altre parole il fatto che un pianeta sia abitabile (secondo l’attuale definizione) non ha niente a che fare con l’eventuale fondazione di una colonia.

exoplanets2Per vedere la differenza tra abitabile e colonizzabile, rivolgiamo la nostra attenzione verso due pianeti molto diversi tra loro: Gliese 581g e Alpha Centauri Bb. Non abbiamo conferma dell’esistenza di nessuno dei due ma abbiamo abbastanza dati per poter dire a che cosa assomigliebbero se la loro esistenza venisse confermata. Gliese 581g è una super-terra che orbita nel mezzo della zona di abitabilità della sua stella, ciò significa acqua liquida che scorre liberamente in superficie e lo rende un mondo abitabile secondo l’attuale definizione.

Centauri Bb, al contrario, orbita molto vicino alla sua stella e la sua temperatura in superficie è probalbilmente abbastanza alta da rendere uno dei suoi emisferi un mare di magma (il pianeta è collegato alla sua stella da un sistema di maree come la Luna lo è alla Terra). Alpha Centauri Bb viene considerato dai più non abitabile. Gliese 581g è abitabile e Centauri Bb non lo è ; ma ciò significa forse che il primo è più colonizzabile del secondo? In effetti non lo è. Dato che Gliese 581g è una super-terra, ovviamente la gravità in superficie sarà maggiore che sulla Terra. Le stime variano ma si arriva anche a ippotizzare una forza di gravità pari a 1,7g, come dire che un uomo di 78 chili ne peserà oltre 125 su Gliese 581g. Se il nostro uomo convertisse tutto il suo attuale grasso corporeo in massa muscolare potrebbe essere in grado di andare in giro senza usare supporti ortopedici per la deambulazione, se non proprio una sedia rotelle. Comunque il suo sistema cardiovascolare sarebbe sottoposto a uno sforzo permanente e  non ci sarebbe modo di rendere il suo habitat più confortevole.

All’opposto, Centauri Bb è circa delle stesse dimensioni della Terra, e la gravità in superficie è probabilmente la stessa. Siccome si trova in risonanza mareale con il suo sole, un emisfero è sicuramente ricoperto da un mare di lava, ma l’altro emisfero, quello permanentamente in ombra, sarà più freddo, potenzialmente molto più freddo. È probabile che non ci sia nemeno un soffio di atmosfera, né acqua liquida, ma come posto dove costruire un avanposto non sarebbe da buttar via. Bisogna considerare anche che spostare materiali dalla superficie all’orbita bassa sarebbe più facile nel caso di Centauri Bb, mentre l’atmosfera presumibilmente spessa di Gliese 581g renderebbe più difficile la soppravivenza degli esseri umani. Senza dubbio Gliese è un buon candidato per lo sviluppo della vita, ma secondo me Centauri Bb è un candidato migliore per ospitare una colonia.

Definizione di colonizzabilità

Abbiamo una definizione molto buona di cosa rende abitabile un pianeta: una temperatura stabile, atta alla formazione di acqua liquida. È possibile sviluppare una definizione di colonizzabilità per un pianeta, egualmente o più soddisfacente. Come prima cosa un mondo colonizzabile deve avere una superficie accessibile. Una super-terra con un’atmosfera incredibilmente spessa e una gravità di superficie di 3 o 4g è del tutto non colonizzabile, sebbene vi si possa trovare abbondanza di vita.

exoplanets3 In secondo luogo, gli elementi giusti devono essere accessibili sul pianeta perchè esso sia colonizzabile. A prima vista sembra un po’ sconcertante, ma che succederebbe se Centauri Bb fosse l’unico pianeta nel suo sistema, e ci fossero solo tracce di azoto? Non è un problema di quantità, un pianeta come quello (in un sistema stellare come quello) non potrebbe dare supporto a una colonia di forme di vita terrestre. L’azoto, anche solo tracce di esso, è un componente critico della vita biologica.

 In un articolo intitolato “The Age of Substitutibility”, pubblicato su Science nel 1978, H.E. Goeller e A.M. Weinberg hanno proposto un” minerale artificiale “ chiamato Demandite. Si presenta in due forme. Una molecola di Demandite industriale conterrà tutti gli elementi necessari per una industria edile e manifatturiera nelle proporzioni che uno otterrebbe se prendesse, diciamo, una città di media dimensione e la riducesse in polvere finissima. Ci sono 20 elementi nella Demandit industriale, incluso carbonio, ferro, sodio, cloro, ecc…

All’opposto, la Demandite biologica è composta quasi interamente di solo 6 elementi: indrogeno, ossigeno, carbonio, azoto, forforo e zolfo. (Se un intero sistema ecologico venisse macinato e si osservassero le proporzioni di questi elementi, potresti in realtà scoprire che esiste una singola molecola con le stesse esatte proporzioni: si chiama cellulosa).

 Terzo, in superficie deve esserci un flusso di energia in qualche modo gestibile. Il posto può essere tanto rovente che ghiacciato, ma deve essere possibile per noi muovere liberamente il calore. Di sicuro questo non è fattibile sulla superficie di Venere, che, con i suoi 800 gradi obbligherebbe il vostro sistema di aria condizionata a un demenziale super lavoro solo per superare l’inerzia termica. L’accesso a un gradiente termico o energetico è quello che rende possibile il lavoro fisico. Ovviamente cose come la pressione superficiale, l’intensità stellare, la distanza della Terra giocano una grande parte, questi sono i tre fattori più importanti che io posso vedere. Dovrebbe essere ovvio all’istante che essi non hanno nessun rapporto con la distanza dei pianeti dal loro sole. Non c’è una “zona colonizzabile” come invece esiste una “zona abitabile”. Bisogna osservare la situazione pianeta per pianeta.

exoplanets4Si noti che, secondo queste definizioni, Marte è solo marginalmente colonizzabile. Perchè? Non a causa della sua temperatura o della bassa pressione atmosferica, ma perchè è scarsamente dotato di azoto, almeno in superficie. Una combinazione di Marte e Ceres potrebbe essere qualcosa di colonizzabile, se Ceres avesse una buona scorta di azoto nella sua borsetta del trucco, e questa idea di ambienti combinati in attesa di colonizzazione complicava la visione d’insieme. Probabilmente non siamo in grado di rilevare un oggetto delle dimensioni di Ceres, se orbitasse intorno ad Alpha Centauri. Cosi la lunga distanza che ci separa da un pianeta candidato alla colonizzazione difficilmente potrebbe esere considerata come un elemento a sfavore. Al contrario, se possiamo rilevare la presenza di tutti gli elementi necessari per la vita e per l’industrializzazione in un pianeta all’incirca di dimensioni terrestri, possiamo considerarlo come candidato alla colonizzazione senza badare al fatto che si trovi o meno nella zona abitabile della sua stella.

 La colonizzabilità di un pianeta accessibile e dotato di un buon gradiente termico, può essere valutata in funzione di quanto la sua composizione si avvicini alla composizione della Demandite industriale e biologica. Probabilmente dovremo diventare molto accurati nella determinazione di tali valori. Questo, e non l’abitabilità, è il giusto modo di valutare quali mondi dovremmo desiderare visitare.

 Ricapitolando, propongo che venga aggiunto un secondo criterio di misura oltre alla già esistente scala di abitabilità nello studio degli esopianeti. L’abitabilità di un pianeta non ci dice nulla in merito al grado di attrazione che potrebbe avere sui visitatori. Colonizzabilità è la metrica perduta per giudicare il valore dei pianeti intorno ad altre stelle.

Traduzione di ROBERTO FLAIBANI

 

Titolo originale :”A tale of two worlds: habitable, or colonizable?” di Karl Schroeder, pubblicato su Karl Schroeder’s Blog il 18 febbraio 2013

30 settembre 2013 Posted by | Astrofisica, Planetologia, Scienze dello Spazio | , , , , , | 2 commenti

I Terrestri alla ricerca di Pandora: le missioni minori

esopianetiE’ proprio una bella soddisfazione poter incominciare un articolo dedicato alla ricerca degli esopianeti citando dati freschissimi e lusinghieri provenienti dalla sonda Kepler. Infatti, l’ultimo elenco di avvistamenti di nuovi pianeti extrasolari rilasciato il mese scorso comprendeva la bellezza di 18.406 eventi. Una volta sottoposti a verifica, moltissimi risulteranno essere dei “falsi positivi”, ma da un esame preliminare eseguito dal Planetary Habitability Laboratory presso l’Osservatorio di Arecibo, sono stati individuati 262 potenziali mondi abitabili, di cui 4 di dimensioni marziane, 23 terrestri, mentre i rimanenti sono di dimensioni superiori a quelle della Terra (super-Terre). Per catalogare questi candidati privilegiati, è stato creato un apposito indice di somiglianza alla Terra, chiamato ESI, e 24 di loro hanno ricevuto un punteggio di almeno 0,90 ESI. Il primo della lista risulta essere un pianeta tipo Terra, che in 231 giorni completa la sua orbita intorno alla stella KIC-6210395, dalla quale riceve il 70% dell’energia che noi riceviamo dal Sole. E’ ormai opinione sempre più diffusa tra gli esperti che nella Via Lattea esistano milioni di pianeti simili alla Terra e adatti a ospitare la vita.

 Ai lettori della prima parte dell’articolo non sarà sicuramente sfuggita la sostituzione, nel titolo, del termine Europei con Terrestri. Infatti, anche se i particolari scarseggiano, si registra interesse per gli esopianeti da parte di Giappone, Russia e Cina. Jaxa, la dinamica agenzia spaziale giapponese, ha varato un proprio programma di astrometria chiamato JASMINE, complementare a GAIA, ma operante nell’infrarosso. Una prima missione esplorativa, Small-JASMINE, sarà lanciata nel 2014.

 Anche Roscosmos, l’agenzia spaziale russa, punta sull’astrometria con il programma OSIRIS, che in qualche modo sembra rifarsi al SIM, l’interferometro spaziale cancellato dai programmi della NASA nel 2010. I Russi vorrebbero lanciarlo nel 2018, ma i finanziamenti per le attività spaziali sono discontinui e dopo il naufragio della missione Phobos-Grunt, l’intero programma spaziale russo è in piena crisi.

 I Cinesi hanno cominciato a dimostrare interesse per l’astrometria e la ricerca degli esopianeti solo in tempi recenti. Prevedono di lanciare un osservatorio a raggi X e una sonda da immettere in orbita polare intorno al Sole entro il 2019, e fanno programmi per un telescopio satellitare.

 Nel settore delle missioni minori, l’amichevole competizione tra i due maggiori attori, ESA e NASA, sembra volgere, seppure di poco, a favore degli americani che presentano due missioni già vincitrici di una tranche di finanziamenti, e forse una terza missione. TESS,  complementare a Kepler, usa anch’essa il metodo del transito per individuare gli esopianeti, ma non in una zona circoscritta del cielo, come Kepler, bensì su tutta la sfera celeste, come GAIA. La strumentazione di bordo è in grado, però, di osservare a una distanza non superiore ai 200 anni-luce dal Sole, alla ricerca dei migliori besagli per future esplorazioni. Se riceverà l’intero ammontare dei finanziamenti richiesti nei tempi previsti, TESS potrebbe già essere in orbita nel 2016 per un ciclo operativo di almeno due anni.

 cheopsCHEOPS dell’ESA (nella illustrazione qui a sinistra) e FINESSE della NASA costituiscono un netto salto di qualità e di prospettiva non solo nella ricerca generica degli esopianeti, ma nel precisare le caratteristiche fisiche, perfino atmosferiche di esopianeti già noti. Così l’europea CHEOPS indagherà sulla relazione tra la massa e il raggio degli esopianeti catalogati come Super-Terre, e sui meccanismi fisici che regolano il trasferimento dell’energia nell’atmosfera tra l’emisfero diurno e quello notturno. Identificherà i pianeti dotati di una atmosfera significativa, studiando i rapporti che intercorrono tra i parametri e la distanza della stella di riferimento e la massa e l’atmosfera di ciascun pianeta. CHEOPS percorrerà un’orbita a 800 km di altitudine e peserà non più di 200 kg. In virtù del suo peso ridotto, sarà possibile lanciarla scegliendo tra una vasta gamma di missili vettori, tra cui il VEGA. FINESSE, invece, grazie al suo spettrometro all’infrarosso, sarà in grado di rilevare nell’atmosfera del pianeta esaminato, la presenza di molecole molto significative, come acqua, metano, monossido di carbonio, anidride carbonica. Il suo obiettivo sono 200 esopianeti, dal tipo-Giove alle super-Terre. La sonda eseguirà analisi spettrografiche mentre l’esopianeta si trova in punti diversi della sua orbita e tenterà di definire non solo la composizione chimica dell’atmosfera ma anche le sue eventuali variazioni tra giorno e notte.

 finesseCHEOPS e FINESSE (nella illustrazione qui a sinistra), e anche TESS, per ora hanno ricevuto solo i finanziamenti per la prima fase del lungo iter che porta alla rampa di lancio. Se tutto andrà bene, dovrebbero fare il loro ingresso in orbita entro la fine del decennio. Non così per EXCEDE della NASA, che non ha completamente convinto gli esaminatori, e ha ricevuto, invece della tranche completa, un acconto sufficiente solo per concludere le indagini preliminari. La missione consiste nello studio della luce zodiacale, una luminosità diffusa come una specie di banco di nebbia, provocata dalla luce della stella quando si riflette su una tenue ma vasta nuvola di polvere, presente con diversa densità in molti sistemi stellari, tra cui anche il nostro. Lo studio della natura e della distibuzione della polvere può fornire indicazioni molto precise sulla presenza di esopianeti. Allo stesso tempo questo effetto nebbia è una maledizione per gli studiosi americani, che hanno puntato, nella ricerca e la caratterizzazione dei pianeti extrasolari, sull’utilizzo intensivo di tecnologie di direct imaging. EXCEDE sembra essere la missione giusta per affrontare il problema e trovare una soluzione. Inoltre, in caso di tagli al bilancio, per le ricerche sulla luce zodiacale si potrebbe utilizzare il telescopio ZODIAC II, che viene portato ai limiti dell’atmosfera da un pallone, ed è in grado di ottenere risultati utili, sebbene parziali e incompleti, a una frazione del costo del progetto originario.

 Sempre dalla NASA, arrivano altre due proposte dotate di una certa originalità. La prima, denominata BigBENI, si compone di due telescopi da un metro ciascuno trasportati ad alta quota tramite palloni, per sperimentare la tecnica dell’ “interferometro a cancellazione”. Le luci raccolte dai due strumenti vengono elaborate in modo che ogni onda proveniente dall’oggetto osservato venga azzerata da un’altra identica, ma in opposizione di fase. In pratica, se osserviamo una stella molto luminosa, e azzeriamo la sua luce con questo sistema, la debole luce riflessa di un eventuale esopianeta potrebbe allora emergere ed essere studiata.

robonautIl programma OPTIIX punta a dimostrare che è possibile assemblare nello spazio un grande telescopio ottico, usando la ISS come banco di prova e facendo uso di robot telecomandati. Gli elementi del puzzle potrebbero arrivare alla Stazione già nel 2015. Se OPTIIX si rivelasse un successo, farebbe risparmiare parecchi soldi e contribuirebbe a contenere i rischi. (nella illustrazione qui a sinistra i robonaut della Stazione Spaziale Internazionale)

 Concludiamo con un breve accenno alla missione Euclid (ESA), per arrivare alla descrizione dell’effetto microlensing (microlente gravitazionale). Di tutte le missioni delle quali ci siamo occupati in questo articolo, Euclid è l’unica che sia stata già approvata e finanziata, e di cui si conosca sommariamente la data di lancio, ossia il 2020. La sonda sarà equipaggiata per lo studio della materia e dell’energia oscure, uno dei grandi misteri ancora non risolti dell’astronomia moderna. In secondo luogo sarà dotata di apparecchiature per il microlensing, cosicché, al momento del lancio, Euclid potrebbe essere il primo veicolo spaziale a effettuare la ricerca degli esopianeti utilizzando tale metodo. Per una definizione semplice ma accurata del microlensing, lasciamo la parola a Ilaria Carleo dell’Università di Salerno, che nella sua tesi di laurea scrive quanto segue:

 Il metodo del microlensing si basa su un effetto predetto dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein: i raggi di luce possono essere deviati da un campo gravitazionale sufficentemente forte. Dunque i raggi provenienti da una stella lontana vengono deviati dal campo gravitazionale di una stella vicina situata lungo la linea di vista dell’osservatore. La stella vicina funge da lente, e la sorgente appare più luminosa. L’allineamento della stella lente lungo la linea di vista rispetto alla sorgente è transitorio, poiché le due stelle sono in moto relativo l’una con l’altra. Ciò significa che le osservazioni di microlensing rilevano un picco nella luminosità quando la lente si muove lungo la linea di vista della sorgente, e un successivo oscuramento mano a mano che la lente si allontana. Se un pianeta orbita intorno alla stella lente, il suo stesso campo gravitazionale può contribuire alla curvatura dei raggi di luce. Ciò produrrà uno stretto picco nella curva di luce della stella lente, che indica proprio la presenza del pianeta. Sfortunatamente, gli eventi di microlensing sono rari, e, in caso di scoperta planetaria, questa non può essere confermata da un’ulteriore osservazione perchè tali eventi sono irripetibili.

ROBERTO FLAIBANI

Lista degli acronimi:

JASMINE (Japan Astrometry Satellite Mission for INfrared Exploration)

TESS (Transiting Exoplanets Survey Satellite)

CHEOPS (CHaracterizing ExOPlanet Satellite)

FINESSE (Fast INfrared Exoplanet Spectroscopic Survey Explorer)

EXCEDE (Exoplanetary Circumstellar Environments and Disk Explorer)

BigBENI (Big Balloon Exoplanet Nulling Interferometer)

OPTIIX (OPtical Testbed and  Integration on ISS eXperiment)

Fonti e ringraziamenti:

I siti ufficiali di ESA e NASA

PHL – Planetary Habitability Laboratory

https://sites.google.com/a/upr.edu/planetary-habitability-laboratory-upra/press-releases/mygoditsfullofplanetstheyshouldhavesentapoet

The Space Review – Future exoplanet missions: NASA and the world (part 2)

http://www.thespacereview.com/article/2170/1

Si ringraziano ESA e NASA per le immagini

23 gennaio 2013 Posted by | Astrofisica, Astronautica, Carnevale della Fisica, Planetologia, Scienze dello Spazio | , , , , , , , , , , , | 1 commento

Gli Europei alla ricerca di Pandora

La ricerca degli esopianeti sta accentrando sempre di più l’interesse degli scienziati, in particolare la ricerca di quelli “analoghi” alla Terra, cioè pianeti con massa pari a quella della Terra o inferiore, orbitanti nella zona di abitabilità di stelle della stessa classe spettrale del Sole. Tra il 2013 e il 2022 è previsto il lancio di numerose missioni dedicate a tale scopo, o comunque equipaggiate con strumentazione polivalente, capace di fornire contributi importanti anche in quella branca della ricerca. La scoperta di un pianeta abitabile dall’Uomo, colmo di vita vegetale e animale, che, per semplicità, identifichiamo con Pandora, il lussureggiante pianeta di fantasia dove è ambientato il film Avatar, avrebbe sull’opinione pubblica e sulla comunità scientifica un effetto esplosivo, capace di alimentare l’interesse per l’esplorazione dello Spazio come fece lo sbarco sulla Luna, e anche di più. Questa scoperta non appare affatto remota, né improbabile: a oggi i pianeti extrasolari individuati con certezza sono quasi un migliaio e un numero almeno doppio di “candidati” avvistati dalla sonda KEPLER è in attesa di riscontro (Nell’immmagine l’area di ricerca di KEPLER – clicca per allargare). Il fatto che si tratti più frequentemente di giganti gassosi tipo Giove e che il numero degli analoghi della Terra sia stimato essere non più del 7% del totale non scoraggia chi ritiene che, con telescopi più potenti e tecniche di ricerca più raffinate, oggi perfettamente alla nostra portata, la scoperta di Pandora sia un obiettivo ragionevole, una pura questione di tempo e denaro investiti.

 A differenza del Progetto Apollo, in larga parte motivato da esigenze politico-militari della Guerra Fredda, la ricerca di Pandora potrebbe avvenire fortunatamente in un’atmosfera di cooperazione internazionale e divisione dei compiti. ESA e NASA, infatti, stanno approfondendo due metodi di ricerca diversi, ma complementari: la prima si affida all’astrometria di precisione, la seconda alla fotografia diretta dell’oggetto (direct imaging). Il lancio di KEPLER, a cui recentemente è stata riconosciuta un’estensione di 5 anni della sua vita operativa, è avvenuto nel 2009, e può essere considerato come l’inizio della corsa non competitiva alla scoperta di Pandora. Ci si aspetterebbe che fosse la NASA a guidare anche questa carovana scientifica, ma non sempre i più forti sono anche i più saggi. Gli americani, infatti, avevano fino al 2010 uno splendido programma dedicato agli esopianeti, chiamato Navigator, che si basava su due missioni principali: Space Interferometry Mission (SIM) e Terrestrial Planet Finder (TPF). In quell’anno l’intero programma è stato inaspettatamente cancellato con una decisione molto contestata sulla quale abbiamo riferito nell’articolo “Alla ricerca di Pandora, tra manovre di bilancio e mine vaganti”. Dal marasma che ne è seguito è emersa l’idea di una nuova missione, denominata New Worlds, che abbiamo presentato in un altro articolo intitolato: “Innovazioni nella ricerca dei pianeti extrasolari”. New Worlds avrebbe tutte le carte in regola per portare a termine la missione, il problema, casomai, è come finanziarlo. Infatti il James Webb Space Telescope (JWST), considerato di primaria importanza dalla NASA ma non specificatamente attrezzato per occuparsi degli esopianeti, ha sfondato tutti i limiti di budget e accumulato ritardi nella data di lancio, previsto ora per il 2019. Dati i costi imponenti, si ritiene che, una volta partito il JWST, la NASA non finanzierà un altro grande telescopio spaziale prima di una decina d’anni, perciò gli studiosi americani rimarrebbero privi, una volta messo in disarmo KEPLER, di un potente strumento dedicato alla ricerca dei pianeti extrasolari forse fino al 2030. Non rimarrebbe loro che affidarsi a una serie di piccoli progetti che saranno il tema di un altro articolo.

 Le notizie che giungono dall’ESA, invece, sono di tuttaltro tenore. Il Nearby Earth Astrometric Telescope (NEAT), da lanciare sperabilmente entro il 2022, potrebbe essere la vera “killer mission”. Il suo obiettivo primario è dichiaratamente la ricerca, in un volume di 50 anni luce di raggio intorno al Sole, di pianeti analoghi alla Terra. Si tratta complessivamente di 200 stelle, quasi tutte visibili ad occhio nudo, cosicchè, se Pandora orbitasse davvero intorno ad una di esse, chiunque sulla Terra saprebbe indicarne la posizione: che potente messaggio promozionale! (nell’immagine l’area di ricerca di NEAT – clicca per allargare)

 Per ciascun pianeta esaminato, NEAT indicherà con estrema precisione la massa e le caratteristiche dell’orbita, inclinazione compresa. In secondo luogo darà seguito alle ricerche fatte in precedenza, riesaminando con maggiore accuratezza sistemi stellari dove sono già stati segnalati pianeti, fornendo dati raccolti anni dopo la prima osservazione, e perciò preziosi per identificare corpi celesti su orbite di lungo periodo. E’ previsto che il telescopio operi per 5 anni al punto di librazione Sole-Terra L2 (SEL2), dove arriverà trasportato da un missile Soyuz-ST lanciato dallo spazioporto di Kourou. La missione costerà meno di 500 milioni di euro, tutto compreso.

NEAT si compone di due moduli, del peso di 700 kg. ciascuno, che volano in formazione a 40 metri l’uno dall’altro. L’Europa ha la leadership nella tecnologia del volo in formazione fin dai tempi della missione Cluster. In questo caso, l’agenzia spaziale francese (CNES), prima ispiratrice del NEAT, ha voluto affidare agli svedesi del progetto PRISMA il test in volo degli speciali algoritmi studiati per eseguire operazioni di rendez-vous,  prossimità, manovre anticollisione, e di altri aspetti della missione. Inoltre, per far fronte alle riduzioni generalizzate di budget causate dalla crisi economica mondiale, è allo studio un progetto “precursore” chiamato MICRO-NEAT, sempre basato su tecnologia PRISMA, che offrirebbe performance alquanto ridotte rispetto all’originale, ma sarebbe comunque in grado di individuare un eventuale pianeta di dimensioni terrestri nel sistema di Alfa Centauri.

 In attesa del NEAT, l’ESA ha pronta un’altra missione, GAIA, da lanciare nel 2013, che raccoglie l’eredità di Hipparcos, il primo telescopio spaziale espressamente dedicato all’astrometria, la scienza che si occupa della misurazione della posizione, distanza, luminosità, e movimento delle stelle. Si deve a Ipparco di Nicea, grande astronomo greco del secondo secolo a. C., la creazione del primo catalogo stellare, contenente le coordinate celesti e la misura della luminosità di 1080 stelle visibili a occhio nudo. La missione Hipparcos ha portato alla pubblicazione dell’omonimo catalogo, che raccoglie le misure astrometriche di 120.000 stelle, nonché il Catalogo Thyco, che fornisce la distanza di circa 2.500.000 stelle entro 500 anni luce dal Sole, misurata col metodo della parallasse.

 GAIA contribuirà notevolmentemente a questo censimento progressivo monitorando circa 70 volte, nel corso della missione, il miliardo abbondante di stelle e altri corpi celesti che costituiscono il suo target. I pianeti extrasolari tipo Giove potranno essere rilevati fino alla distanza di 600 anni luce, e ciò potrebbe portare alla scoperta di altre migliaia di nuovi esopianeti. Ma GAIA non diventerebbe un concorrente di KEPLER, perchè l’uno esplora una zona ben definita della Via Lattea situata a 3.000 anni luce circa da noi, mentre l’altra scansiona tutta la sfera celeste e registra qualsiasi oggetto sia percepibile con gli strumenti di bordo. E non solo: se la sua raffinata strumentazione fosse usata per conoscere la parallasse delle stelle che KEPLER ha trovato dotate di pianeti, e questi dati fossero incrociati con quelli dell’analisi spettrografica, si potrebbero ricalcolare rapidamente i diametri stellari e di conseguenza adeguare le stime sulla massa degli esopianeti. Ciò colmerebbe definitivamente il vuoto di conoscenza di cui la scienza soffre a proposito della reale misura dei diametri stellari (si parla di un’approssimazione del 30%) che influenza il calcolo della massa degli esopianeti associati. (nell’immagine l’area di ricerca di GAIA – clicca per allargare)

L’accuratezza delle osservazioni e la quantità e varietà dei dati raccolti scemano con l’allontanarsi dal Sole: per esempio, la distanza delle stelle più vicine viene fornita con l’approssimazione dello 0,001%, che sale al 20% per quelle in prossimità del centro galattico, lontano 30.000 anni luce. Nella gran massa di dati raccolti da GAIA, che saranno elaborati in Germania per anni e anni da un piccolo esercito di 400 analisti, si potrà trovare qualsiasi corpo celeste di magnitudine inferiore a 20: quasar e galassie lontane, stelle di ogni tipo, nebulose e ammassi stellari, asteroidi interni al Sistema Solare, oltre naturalmente agli esopianeti.

 GAIA si presenta come un tozzo cilindro con uno schermo rotondo a una estremità. Misura 3 metri in altezza e 3 metri di diametro, a cui si aggiungono altri 7 metri a schermo dispiegato. Il cilindro si compone di due moduli: quello di servizio e quello contenente il carico utile. Il peso complessivo è pari a 2050 kg, di cui 750 kg come carico utile, composto da due telescopi Astro identici, un banco di 80 sensori CCD, due fotometri a luce blu e rossa per l’analisi spettrale a bassa risoluzione, e uno spettrometro a velocità radiale per l’analisi ad alta risoluzione. GAIA verrà lanciata dalla Guyana francese da un vettore Soyuz-Fregat e opererà dal punto di librazione SEL2. La missione durerà 5 anni e costerà 500 milioni di euro.

 ROBERTO FLAIBANI

Credits: NASA, ESA, Wikipedia

Fonti:

KEPLER – http://kepler.nasa.gov/

NEAT 2011 Workshop – http://neat.obs.ujf-grenoble.fr/NEAT2011WS.html

GAIA Overview – http://www.esa.int/esaSC/120377_index_0_m.html

The Space Review, “Future exoplanet missions: NASA and the world” (part 1)
by Philip Horzempa
http://www.thespacereview.com/article/2167/1

27 novembre 2012 Posted by | Astrofisica, Planetologia, Scienze dello Spazio | , , , , , , | 7 commenti

Alla ricerca di Pandora, tra manovre di bilancio e mine vaganti

I primi pianeti extrasolari (esopianeti)  furono scoperti intorno alla metà degli anni ’90 e fino a oggi ne sono stati individuati circa 500, grazie a notevoli progressi delle tecniche di ricerca e a due telescopi spaziali opportunamente equipaggiati, l’europeo CoRoT, lanciato da Baikonur negli ultimi giorni del 2006, e Kepler, lanciato dalla NASA nel marzo del 2009. La ricerca degli esopianeti viene effettuatta, sia da CoRoT che da Kepler, col metodo del transito, ossia misurando la variazione d’intensità nella luce di una stella mentre un pianeta transita interponendosi tra la stella stessa e l’osservatore. Questo metodo funziona egregiamente anche per stelle lontanissime e fornisce dati accurati sulla dimensione, massa e densità del pianeta in transito, nonché dati relativi alla sua orbita. Il metodo, però, funziona solo se il transito avviene in posizioni di allineamento particolari, e quindi un numero imprecisato di pianeti extrasolari potrebbe sfuggire al rilevamento. Inoltre nulla può dirci sull’atmosfera e la geologia dei pianeti tipo Terra eventualmente avvistati.

Per far progredire la ricerca sugli esopianeti, in particolare quelli tipo Terra, e mappare accuratamente i dintorni del Sistema Solare, bisogna evidentemente affidarsi a una tecnologia diversa. La tecnologia c’è, si chiama interferometria, se ne fa gran uso in Astronomia, ma ancora non è stata sperimentata nello spazio. C’è anche un vero e proprio progetto per un sistema costituito da due telescopi che lavorano in coppia osservando lo stesso oggetto da due posizioni leggermente diverse. Elaborando insieme le immagini raccolte dai due strumenti se ne ottengono altre in altissima definizione. Il sistema porta il nome di Space Interferometry Mission (SIM) e sarà pronto al lancio entro il 2015, dopo aver seguito un durissimo, pluriennale percorso, che ha visto il team del progetto non solo confrontarsi  con la NASA in occasione dei controlli periodici sull’andamento dei lavori, ma anche attivarsi per evitare che SIM fosse risucchiato nel naufragio di Constellation.

Questa era la situazione fino allo scorso agosto, ma ora voglio citare direttamente l’articolo che mi ha ispirato queste righe, pubblicato il 18 ottobre scorso su The Space Review a firma del planetologo Philip Horzempa:”Mentre l’attenzione della comunità scientifica era distratta dal protrarsi del dibatttito sulla sorte di Constellation, una controversia altrettanto importante stava attraversando la Divisione di Astronomia della NASA. Anche se può sembrare assurdo, l’Agenzia è sul punto di tagliare i finanziamenti alla ricerca di pianeti tipo Terra nelle vicinanze del Sistema Solare, mentre continuerà, con poco sforzo, l’individuazione dei giganti gassosi tipo Giove, che però sono inadatti a ospitare la vita.” Horzempa è giunto a questa conclusione perchè Astro2010, l’importantissimo report che riesamina ogni 10 anni l’attività della NASA in campo astronomico e suggerisce all’Agenzia una lista delle missioni più importanti per l’intera decade successiva, non cita più il Progetto SIM se non nelle note a fondo pagina. “La commissione Astro2010, invece – continua Horzempa – ha inserito in lista la sua missione di Fisica, battezzata WFIRST, un progetto di altissimo profilo dedicato alla ricerca dell’energia oscura. ….. Hanno perfino offerto un contentino agli studiosi di esoplanetologia, cioè dotare il WFIRST, che è un telescopio per l’infrarosso, di funzionalità microlensing.”

In effetti, nella sua polemica contro l’abbandono di SIM a vantaggio di WFIRST, Horzempa ha molti buoni argomenti:

  • mentre WFIRST esiste solo sulla carta, SIM ha già superato a pieni voti le fasi A e B del severo protocollo NASA per l’ammissione dei nuovi progetti, ed è pronto a iniziare la fase C, quella conclusiva

  • Abbandonare SIM proprio ora sarebbe uno spreco di tempo e risorse pubbliche

  • realizzare WFIRST costerebbe due miliardi di dollari, mentre realizzare SIM solo uno, e il rimanente potrebbe essere assegnato a una versione leggera di WFIRST

  • L’abbandono di SIM significherebbe rinunciare anche alle altre applicazioni spaziali dell’interferometria, che si prospettano molto interessanti

  • Se l’abbandono di SIM dovesse comportare un ritardo nell’indagine approfondita dei dintorni del Sistema Solare alla ricerca degli esopianeti tipo Terra, ne sarebbero influenzati negativamente anche i progetti di nuova generazione come Life Finder e Planet Imager, nonché l’europeo Darwin

Su questo ultimo punto va registrato un parziale disaccordo da parte del noto opinionista scientifico americano Paul Gilster, blogger di “Centauri Dreams”, che prima commenta l’articolo di Horzempa, e poi, in un successivo post, esordisce così: ”Mentre mi lamento per i problemi di finanziamento di missioni basate nello spazio, come SIM, l’interferometro spaziale, spesso mi sorprendo a pensare che il progresso tecnologico ci mette in grado di fare sulla superfice terrestre cose che eravamo soliti credere di poter fare solo nello spazio” L’articolo riporta interessanti informazioni riguardo al telescopio gigante Magellan e al progetto HETDEX sull’energia oscura.

Vorrei aggiungere che lo sviluppo dell’interferometria spaziale sembra essere un fattore cruciale anche per la missione FOCAL, diretta al fuoco della lente gravitazionale del Sole, che è, almeno sulla carta, il più potente strumento per l’indagine astronomica offertoci dalla natura nel Sistema Solare. Nessuno dei due interlocutori vi fa cenno, ma forse il concetto suona ancora un po’ troppo fantascientifico, mentre la ricerca astronomica di Pandora, l’esopianeta stracolmo di vita del film Avatar, rimane invece un obiettivo comprensibile e condivisibile dal grande pubblico.

Allora ridiamo un’ultima volta la parola a Horzempa: “Se la NASA accettasse le raccomandazioni di Astro2010 e decidesse di cancellare SIM, dovrebbe darne spiegazione al Congresso e all’opinione pubblica americana. La ricerca di esopianeti tipo Terra è un obbligo. E’ un aspetto del lavoro della NASA che gli Americani capiscono implicitamente, che eccita la loro immaginazione. Chiedete a un amico qualsiasi, o anche a un estraneo, quali sono le sue opinioni sulla ricerca di altri pianeti che possano ospitare la vita. Vi faranno una testa così. C’è in noi un innato, urgente desiderio di esplorare.

[In seguito, la SIM è stata effettivamente cancellata dai programmi della NASA – addendum 03/12/10]

Fonti: The Space Review, Wikipedia, NASA

30 ottobre 2010 Posted by | Astrofisica, Astronautica, Scienze dello Spazio | , , , , | 4 commenti